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lunedì 11 settembre 2017

Lo Sapevate Che: Quando perdi l'abitudine alla libertà...



Un Mio Amico aveva due canarini. Petunia e Sandrino. Vivevano in una gabbia né grande né piccola, e ogni mattina cantavano per lui. Un giorno decise di offrire loro la possibilità di andarsene e aprì la porticina che li teneva prigionieri. “Siete liberi!”, esclamò mostrando loro quello scorcio di orizzonte senza sbarre. Loro si guardarono, lo guardarono e rimasero immobili per un po', perplessi e confusi. Poi arretrarono verso la parete più interna e protetta del loro mondo a righe. Voltando la schiena e le ali a quella chance di emancipazione. Qualche tempo fa mio marito e io ci siamo ritrovati un fine settimana soli a casa con il primogenito. I due piccoli erano al mare con la nonna, e noi abbiamo assaporato l’ebrezza del figlio unico, nella fattispecie adolescente e latitante. “È ora?”, ci siamo domandati sabato pomeriggio, in preda alla vertigine, quando il virgulto è uscito comunicandoci che sarebbe rimasto a dormire da un amico. Avremmo dopotutto concederci una cena fuori, a base di pesce e romanticismo spinto, trasgredire al cinema con due spettacoli consecutivi o magari tre, incontrare gli amici per una serata di sfrenata e nostalgico trasgressione. Avremmo potuto, come Petunia e Sandrino, abbandonare il porto sicuro di casa per spingerci fuori, nel mondo. “Boh”, ci siamo risposti con lo sguardo vitreo e incredulo dei canarini. “Potremmo chiamare…è una vita che non li vediamo”. “Io uscirei con… abbiamo milioni di cosa da raccontarci”. “Ci sono anche…”. “E, perché non…”. Per un po' abbiam oscillato dentro e fuori dall’uscio, snocciolando nomi, possibilità, consci dell’importanza di giocarci bene quella carta preziosa. “Certo, volendo potremmo cenare sul terrazzino, tu e io”. “E dopo vederci un numero insensato di episodi di una serie televisiva a caso”. “Mi sembra un programma fantastico”. “Mò! Ce bellèzza”, ha concluso lui, che quando è felice si riappropria delle radici baresi. E abbiamo fatto come Petunia e Sandrino: abbiamo scelto la riposante sicurezza delle abitudini, unita all’inebriante e insolita esperienza della solitudine. È stato bellissimo e memorabile, ma mi sono domandate perché, tra tutte le creature, abbiamo scelto di somigliare ai canarini. Un tempo ero una indefessa socializzatrice. Avevo centomila amici e riuscivo a frequentarli tutti. La mia identità passava attraverso di loro. Da loro traevo idee, linfa, entusiasmi, equilibrio e felicità. Sognavo un co-housing, con la cucina e il ping-pong in comune. Immaginavo relazioni fluide, genitorialità condivisa, legami indissolubili. A quel tempo gli amici erano necessità e urgenza, e una vita comunitaria era l’unica possibile. In teoria ci credo ancora, almeno un po'. In teoria sono ancora convinta che gli amici siano un bene inestimabile, che incontrali sia un dovere oltre che un piacere, e una forma di arricchimento imprescindibile.  Ma perché nella pratica mi sono ripiegata su una quotidianità domestica e lavorativa che non lascia spazi a niente, se non ai doveri primari in cui l’amicizia non sembra contemplata? Perché mi struggo nel ripensare alla vorticosa giostra di relazioni che mi coloravano la vita, ma quando si apre una porta e potrei risalirci anche solo per una sera, arretro alla ricerca dell’intimità di un tavolino per due sul balcone? È colpa dei figli? Dello sfinimento? Della pigrizia? Delle priorità di due tizi che si dicono coppia ma somigliano di più a soci di un’impresa? Del nostro solipsistico inaridirci? Non ho risposte, ma solo disagio e nostalgia per quei due socializzatori indefessi e mondani. E un certo malinconico struggimento per Petunia, Sandrino e quelli come loro.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 9 settembre 2017 -

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