Lo scoprii quando richiesi il mio certificato di nascita
originale al Comune di Bastiglia, provincia di Modena. C’era una casella che
chiedeva la “razza” e il segretario comunale aveva scritto in bella grafia:
Ariano. Poiché era il 1944, e l’Emilia era parte della Repubblica Sociale
controllata dai nazisti, quella definizione mi aveva collocato ufficialmente
fra la “razza superiore”, gli ariani. Di razze – questa orrenda parola che al
massimo andrebbe applicata ai cani e ai cavalli – e di razzismo non mi sarei
più preoccupato se non per curiosità o per lavoro, vivendo in Giappone dove i
bambini ridevano indicando il mio nasone da europeo e poi nel mio primo sbarco
negli Stati Uniti. Mi ero illuso che le questioni di origine, di colore della
pelle o degli occhi fossero soltanto spazzatura della storia che
inevitabilmente sarebbero state portate va dalla marea del tempo. I razzisti
c’erano, come sempre, ma erano ben incistati in minoranze di fanatici sotto i
cappucci del Ku Klux Klan negli Stati Uniti o delle insegne neo nazi in Europa.
Ma il mostro che sembrava essere stato esorcizzato nel 1945 era soltanto
assopito. Si sarebbe risvegliato con un ruggito negli anni ’90, quando il
disgelo umano provocato dal collasso dell’Unione Sovietica e dalla ripresa
delle grandi migrazioni per scelta o per forza lo avrebbe addirittura portato
al potere. Il terrore del barcone che galleggia sull’orizzonte del Mediterraneo
per gli italiani, o del “latino” che scavalca la barriera del Rio Grande fra
Usa e Messico per gli americani, è soltanto la reazione tardiva a qualcosa già
avvenuto. Milioni di persone hanno improvvisamente scoperto con un sussulto che
la società, la comunità nella quale vivevano, aveva già cambiato colore della
pelle, taglio degli occhi, fattezze del viso e non se n’erano resi conto. Ho
trascorso giorni di noiosi esami medici in uno degli ospedali universitari più
famosi d’America e la realtà della nuova “razza” che oggi popola questa nazione
di popoli mi è apparsa in tutta la sua evidenza. Medici e specialisti che mi
palleggiavano erano, nella maggioranza, persone con nomi cinesi, coreani,
arabi, indiani, pakistani, keniani, assunti per meriti e competenza ai massimi
livelli delle loro specialità. Accanto a immigrati europei, spesso italiani,
già affermati da tempo in cliniche e ospedali, i medici di origine asiatica
hanno sempre più tra le mani la salute e a vita degli “americani”. Ci sono
comunità rurali, nel lontano West, dove l’unico dottore per centinaia di
chilometri è un siriano o un pakistano spesso respinto da pazienti che
rifiutano di farsi curare da uno “straniero musulmano”. Nel 1985, calcola
l’Associazione dei Medici Americani, l’87% dei nuovi iscritti alle facoltà di
Medicina erano bianchi e i 2% asiatici. Lo scorso anno, soltanto la metà dei
futuri dottori erano “di razza bianca”, mentre il 37%, più di un terzo, erano
immigrati o figli di immigrati dall’Oriente. E l’8% “afro”. Nel prossimo ano
accademico, i bianchi saranno per la prima volta minoranza nelle facoltà di
medicina. La grande migrazione etnica è già avvenuta e coloro ai quali oggi gli
Stati Uniti affidano la vita sono spesso figli e figlie – soprattutto figlie,
viso che negli stati americani già evoluti ormai il 40% dei medici sono femmine
– di immigrati clandestini nati negli Usa, di profughi dalle tragedie belliche
ed economiche dell’Asia ai quali la società e la tenacia hanno dato l’occasione
per provare il loro valore, anziché confinarli nelle cucine o nei campi. Siamo
già tutti immersi nel nuovo mare multietnico. Siamo come bagnanti in una
piscina che si lamentano perché sono bagnati, anziché imparare a nuotare.
Parola di “ariano”.
Vittorio Zucconi –
Opinioni – Donna di La Repubblica – 25 agosto 2018 -
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