Ascoltare le testimonianze di chi arriva in Italia dalla Libia è
devastante, ma fino a quando ci sarà chi queste testimonianze le raccoglie, io
sentirò il dovere di diffonderle. Mahdi è un profugo eritreo di 26 anni
arrivato in Italia sulla Diciotti. Mahdi racconta ad Andrea Billau, giornalista
di Radio Radicale, la sua odissea dall’Eritrea all’Italia. Andate poi a
recuperare l’intervista: dopo averla ascoltata non sarete più le stesse
persone. Non potrete più esserlo. Dopo averla ascoltata potrete spiegare, a chi
non ne ha idea, cosa sono costretti a vivere decine di migliaia di persone,
uomini e donne, che chiedono solo questo vivere in pace. Dall’Eritrea
all’Italia, passando per l’Etiopia,
il Sudan e la Libia, Mahdi ha impiegato quattro anni. Mahdi parte senza sapere
cosa lo aspetta, lascia l’Eritrea credendola una scelta obbligata. Le famiglie
non riescono a fermare chi decide di andar via perché sanno che in patria non
si vive, si sopravvive. Lungo il tragitto, di centri
di accoglienza Mahdi ne troverà diversi. Hanno questo in
comune, tutti: poca acqua, poco cibo e parecchi maltrattamenti. In Etiopia Mahdi
ci resta un anno, da lì riesce a partire pagando i trafficanti. Se hai fortuna
paghi una sola volta, se non ne hai paghi e vieni venduto ad altre bande di
trafficanti. Talvolta i gruppi di trafficanti si scontrano, nascono conflitti a
fuoco e i migranti vengono contesi, se sopravvivono. Mahdi
paga due volte: viene rapito e
tenuto prigioniero per due mesi. Paga cinquecento dollari e viene portato a
Khartum, la capitale del Sudan. A Khartun rimane due anni, decide quasi di
restarci, ma non ha documenti e deve pagare ogni due mesi per rinnovarli.
Prosegue il viaggio e cerca persone che possano portarlo in Libia. Non è facile
trovare il canale giusto, posto che esista davvero. Più facile è, invece,
trovarsi di nuovo in balia di organizzazioni il cui scopo è estorcere a ogni
migrante fino all’ultimo dollaro che le famiglie, in patria, sono in grado di
racimolare. E qui arriva il racconto, fondamentale, che spiega come sia
possibile che i migranti in viaggio riescano a pagare i riscatti. I migranti restano
in contatto con le loro famiglie. Per le bande di trafficanti questo contatto è
essenziale perché durante le telefonate a casa picchiano e torturano i migranti
in modo tale che le famiglie ascoltino le urla di dolore. Chi sta all’altro capo
del telefono, preso dall’angoscia, fa il possibile per mettere insieme il denaro.
Le detenzioni durano molti mesi perché molto tempo occorre alle famiglie per
trovare i soldi e modo per farli arrivare. Questo passaggio è fondamentale,
spiega un meccanismo poco conosciuto e ci mette di fronte a un dramma che
lascia senza parole: le sofferenze subite da chi lascia il proprio Paese e
anche chi resta- Sofferenze che durano anni. Dal Susan alla Libia Mahdi impiega
un mese e mezzo. In Libia viene rinchiuso in attesa che arrivino i soldi per il
riscatto. Ai maltrattamenti, alla mancanza di acqua e cibo si aggiunge la
reclusione perché qui più che altrove i migranti sono merce preziosa che può
essere sottratta da bande rivali. Quei corpi sono denaro sonante, rappresentano
la certezza di poter estorcere denaro. La reclusione in Libia dura per Mahdi
cinque o sei mesi. Finché non paghi resti chiuso, se paghi puoi prendere aria. Mahdi
ha vissuto in uno stanzone stipato di persone, dove mancava l’aria, eppure
dice: “Sono fortunato, non sono mai stato sotto terra”. E poi c’erano le
torture al telefono con le famiglie, per far arrivare i soldi. Dopo
aver pagato, Mahdi resta
ancora per qualche mese vicino al mare dove per partire bisogna raggruppare un
numero cospicuo di migranti. Stipati su una piccola imbarcazione, in tanti,
mare agitato, inizia la traversata. Si rischia di affondare. Mancano acqua e
cibo. A metà strada Mahdi crede che sarebbe finita lì e invece arriva la
Diciotti a salvarlo, a salvare tutti. “Ci hanno salvato la vita, vedi gente con
il viso sorridente, non sai come dire grazie” e continua: “Il Capitano della nave
è stato grande: ci ha detto io sono sempre con voi, tanta gente sta con voi,
cominciando da me”. “Hai sentito i tuoi parenti?”, chiede Billau: è l’ultima
domanda. “Non so come spiegare, i miei familiari erano contenti, sapendo cosa
avevo passato in Libia. I miei non sapevano come esprimere la loro felicità e
ora, a ripensarci, mi emoziono”.
Roberto Saviano –
L’Antitaliano – L’Espresso 16 settembre 2018 -
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