La Prima Volta che percorsi “il ponte” – quello che
sarà per sempre ricordato semplicemente così nella memoria trafitta di un
popolo – ero poco più di un ragazzo in viaggio da Milano verso l’appartamentino
al mare comperato dai miei. Avevo gli occhi sgranati per la sua magnificenza e
il petto gonfio per quel sogno americano che si era materializzato nel cemento fra
Genova e il Ponente. Per chi aveva come me un bambino, percorso il calvario dei
vecchi passaggi sul Po e sui fiumi della Pianura Padana verso l’Adriatico, era
la risposta italiana a quei leggendari ponti che avevamo visto soltanto al
cinema o sui pacchetti della gomma da masticare, che qualche genio del
marketing aveva deciso di associare a Brooklyn. L’America era arrivata anche a
casa mia, in Italia. La madre di tutti i ponti moderni era lei, oltre Atlantico
e quel ponte mi sembrava scavalcare l’oceano e raggiungerla. Più delle stelle
da sceriffo, dei fumetti, dei cappelloni da cowboy, delle calze di nylon o del
makeup Max Factor e, quando erano ancora permesse, le sigarette americane, i
ponti sono stati più di ogni altra l’immagine che ha atto l’America agli occhi
del mondo. Non credo di sbagliarmi se dico che non ci sia stato visitatore che
non sia sbarcato qui senza pensare a Brooklyn o al Golden Gate di San
Francisco. Gli Stati Uniti d’America sono i loro ponti, perché non ci sarebbero
mai stati senza di essi. Stanno agli Usa come le strade lastricate stanno all’impero
romano. Ce ne sono in questo momento 607 mila e 389, più un decimo dei quali è
in condizioni critiche o prossime al collasso, e chi pensasse che qui non
crollano mai, guardando ai quasi 150 anni di vita del Brooklyn Bridge o ai
rispettabili 82 anni del Golden Gare, forse non sa che dozzine di loro sono
crollati e centinaia sono state le vittime, soltanto negli ultimi 50 anni. Mi
emozionai quando per la prima volta percorsi il Golden Gare, o il lungo
Delaware per raggiungere New York, perché sentivo di essere arrivato nel cuore
di una storia lunghissima. Come molti di loro sono lunghissimi. Per scavalcare
un fiume senza particolare fama, il Nobile in Alabama, il Wilson Bridge si
allunga per dieci chilometri. Quello che collega dal 1978 le due sponde della
baia di Tampa, in Florida, è anch’esso di dieci e ha resistito alla collisione
con una nave container che andò a sbattere contro un pilone. Il Chesapeake,
tormento di mie interminabili code nei giorni delle vacanze coi bambini verso
le spiagge, supera, tra campate alte e tunnel, i trenta chilometri. E il più
lungo che attraversa il lago e gli acquitrini a nord di New Orleans, sfiora i
40 chilometri. Nel suo piccolo, il ponte di Verrazano, dedicato al navigatore
toscano al quale tuttavia è stata sottratta una “zeta” (Verrazzano) è più lungo
di quanto sarebbe l’immaginario e improponibile ponte sullo Stretto di Messina.
Così imponente, così emozionante è la vista di quelle torri e di quei cavi, da
ver creato una fobia, la gefirofobia, ovviamente dal greco géphyra, ponte. In molti stati la polizia mantiene un servizio di
assistenza per gli automobilisti assaliti da attacchi di panico. Prenotando,
agenti volontari civili si offrono come chaffeur
per scavalcare il ponte. Per questo la notizia e le immagini della tragedia
di Genova hanno colpito e ferito anche negli Stati Uniti, rimescolando paure
irrazionali con la realtà di quanto fragili molti dei bridger americani siano, dietro la loro superba imponenza. Sono i
simboli della nascita di una nazione, come in Italia quel collasso è stato il
simbolo di un miracolo effimero e crudele. Perché tutti i ponti, come cantavano
Simon & Garfunkel proprio nel tempo delle nostre illusioni americane, ci
portano sopra troubled waters, sopra
acque turbolente.
Vittorio Zucconi –
Opinioni – Donna di La Repubblica – 8 settembre 2018 -
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