Un giornalista
rispettabile non
dovrebbe mai scrivere più del settantacinque per cento di quel che sa. È quel
che pensava e praticava Henry Tanner. All’accusa di autocensura reagiva con
ironia. Non si trattava di omettere qualcosa per opportunità ma di non esibire
troppo le proprie conoscenze, autentiche o spacciate per tal, di non dar da
intendere di sapere più di quel che si sa. Nella politica, nella cultura, nella
storia ma anche nella cronaca. Henry Tanner è morto vent’anni fa, quando stava
per compierne ottanta. Il suo cuore ha ceduto a Lisieux, in Francia, nel 1998.
Era nato a Berna nel 1918. Venuto al mondo svizzero, è morto americano, con alle
spalle una vita di giornalista esemplare. Rifiutò il Pulitzer perché doveva
condividerlo con un collega di cui non approvava il comportamento. Nel dopoguerra, avventurandosi negli Stati
Uniti, ha lavorato come fattorino nei giornali. Poi è stato editorialista di
politica estera nel Texas (all’Houston Post); redattore nell’ufficio del New
York Times a Washington al tempo di Kennedy; corrispondente dalle Nazioni Unte;
inviato speciale nella guerra d’Algeria; capo dell’ufficio di Parigi durante il
maggio ’68; e, sempre per il New York Times, corrispondente da Mosca; e a lungo
dal Cairo durante le guerre arabo-israeliane; e infine da Roma. Conosceva
almeno sei lingue. La sua esperienza giornalistica giovanile in Europa era
stata intensa: aveva lavorato per l’agenzia americana United Press seguendo i
partigiani di Tito in Jugoslavia e poi nella Trieste contesa. Aveva seguito la
guerra civile greca per Life, e il referendum italiano che condusse alla
proclamazione della nostra Repubblica. Ho incontrato per la prima volta Henry Tanner in
Congo durante la crisi dell’indipendenza all’inizio degli anni Sessanta. L’ex
colonia belga era un fronte non tanto secondario della “guerra fredda”.
Americani e sovietici si contendevano il controllo delle ricchezze minerarie di
quel paese, che aveva fornito l’uranio per le prime bombe atomiche. Un giorno
ci trovammo per caso vicini su un aereo che volava da Leopodville a
Elisabethville. Io picchiavo freneticamente sui tasti della mia Olivetti. Lui
mi chiese cosa stessi scrivendo con tanto slancio. Non sapeva che gli americani
avevano creato una campagna internazionale alla quale il primo ministro Patrice
Lumumba aveva affidato il compito di sfruttare le miniere del Congo
indipendente? L’annuncio era stato fatto dallo stesso Lumumba poco prima che il
nostro aereo decollasse. Così gli americani si erano impossessati della
ricchezza dell’ex colonia belga. Henry scoppiò in una risata: mi raccontò che
poco prima della nostra partenza l’ambasciatore degli Stati Uniti aveva
rivelato che chi aveva concluso l’accordo con Patrice Lumumba era un noto
truffatore internazionale. Un americano. Era stata una truffa e al tempo stesso
una farsa. Sull’aereo che ci portava nel Katanga, dovetti cambiare versione:
non scrissi più di un grande avvenimento internazionale, ma feci la cronaca di
un imbroglio. Così cominciò l’amicizia con Henry. Un’amicizia diventata
fraterna. Con lui avrei lavorato in tanti paesi, dal Cairo all’Algeria, al
Libano, alla Francia. Ed è proprio in Libano che mi dette una di quel che
significava il suo “75 per cento”. Un giorno, durante la guerra civile, Henry
Tanner era sull’automobile di Edouard Saab, direttore del quotidiano libanese “Le
Jour”. Eduard, un maronita nato a Latakie, in Siria, era un amico comune, di
Henry e mio. Guidava attraversando una zona di Beirut contesa da gruppi
cristiani e musulmani, quando un proiettile sparato non si sa da chi mandò in
frantumi il parabrezza. E fulminò Edouard che si accasciò, morto, sul volante.
Investito dal pulviscolo di schegge di vetro, Henry cercò di impadronirsi del
volante. Poi, per ore, in mezzo a una sparatoria, sull’automobile finita in un
fosso dopo avere urtato un albero, cercò di proteggere il corpo di Edouard.
Quella sera stessa il New York Times ricevette la puntuale corrispondenza di
Henry Tanner che raccontava l’uccisione di Edouard Saab. Nell’articolo non si
accennava al fatto che lui era al suo fianco. Così Henry Tanner, non parlando
della sua presenza in quel tragico episodio, quindi neppure delle sue ferite,
della sua faccia insanguinata, aveva rispettato la regola del “75 per cento”.
Non aveva esibito la sua condotta. Henry era per me unico del genere. Lo è
rimasto vent’anni dopo. Dovevo ricordarlo.
Bernardo Valli – Dentro E Fuori – L’Espresso – 16 settembre
2018
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