Ieri Sera Sulla metro
c’era una persona di colore. Solo guardandola ho pensato: chissà se ha il
biglietto. Poi ne ho viste altre tre, magari nessuna delle tre ha il biglietto,
e quindi è giusto attuare una politica che punisca questa infrazione. Scendendo
ho poi pensato: ma perché la stessa domanda non me la sono posta anche per
tutti gli altri viaggiatori? E poi, chissà quante persone l’avranno pensato di
me in metro a Milano con questa spilla in bella mostra con scritto cuore di
Napoli. E allora va bene un principio d’ordine, ma non è necessario perdere l’umanità
per conquistarlo. Giovanni Negri negri-giovanni@libero.it
Io Non Porrei la questione come l’ha posta lei, perché se per
tutelare l’umanità occorre rinunciare all’ordine, viceversa, se per difendere l’ordine
bisogna rinunciare all’umanità, resta sottinteso (anche se capisco che questa
non è la sua intenzione) che essere comprensivi e umani significa rinunciare
all’ordine. Argomento utilizzato da chi invoca l’ordine per adottare procedure
che sfiorano la disumanità. Ordine e umanità possono pacificamente convivere se
noi rinunciamo ai nostri stereotipi e pregiudizi, che sono opinioni
precostituite su individui o gruppi che riproducono forme schematiche e
semplificatorie di percezione e di giudizio acriticamente anticipate. A
denunciare per primo il pregiudizio fu, in Francia, nel periodo
prerivoluzionario, Paul Henri Thiry d’Holbach che nel suo Saggio sui pregiudizi (1770) scrive: “Il pregiudizio è tutto ciò
che ingombra la strada della verità, è l’errore che occorre sradicare dalla
metodologia politica di governo: è l’inganno, la menzogna, l’ideologia di cui
il regime si serve come sistema per reprimere i popoli governati”. Luigi XV in
Francia condannò al rogo l’opera, mentre Federico II di Prussia dichiarò che il
Re di Francia avrebbe dovuto “stanare l’autore del saggio e strozzarlo”. Il
pregiudizio di solito serve a tenere coeso un gruppo attraverso l’identificazione
di un nemico esterno. Questo perlomeno è il parere di Freud che ne Il disagio della civiltà (1929) scrive: “È
sempre possibile riunire un numero anche rilevante di uomini che si amino l’un
l’altro fin tanto che ne restino altri per le manifestazioni di aggressività”.
Ad analoghe conclusioni giunge anche il filosofo Theodor Adorno che, elaborando
il concetto di “personalità autoritaria”, ritiene che le persone autoritarie
trasformino la loro incapacità a risolvere i propri problemi interni in
pregiudizio ostile verso il debole, l’alieno e il diverso. Figli di un’educazione
rigida che ha impedito da bambini di assumere comportamenti anticonvenzionali e
di esprimere aggressione e rabbia nei confronti di genitori punitivi o vissuti
come minacciosi, da adulti riversano la loro ostilità repressa nell’infanzia
verso le figure più deboli che possono essere gli estranei, le persone di uno
stato sociale inferiore, quelle vulnerabili, le minoranze, gli stranieri, i
migranti, eccetera. Il pregiudizio tende a connettere impropriamente episodi di
comportamenti negativi con la presenza di gruppi minoritari che, attraverso un
processo illogico di generalizzazione, determina un giudizio negativo su quella
minoranza. Detto pregiudizio a sua volta si autoalimenta perché, seguendo la
logica delle “profezie che si autoavverano” come le definisce lo psicologo
sociale David Hamilton, lo schema di giudizio che esso genera tende a filtrare
le informazioni presenti nell’ambiente a vantaggio di indicazioni coerenti con
il proprio pregiudizio. Se i pregiudizi sono così diffusi vuol dire che offrono
qualche vantaggio, messo bene in luce dallo psicologo statunitense Gordon
Aliport, secondo il quale il pregiudizio è una forma di semplificazione
cognitiva adottata a livello sociale per muoversi più facilmente nel mondo che
ci circonda. Il pregiudizio, infatti, consente di mantenere intatti e di non
sottoporre a revisione il sistema dei propri valori, il che comporta una
selezione delle informazioni che riceviamo sulle altre persone in sintonia con
ciò che sappiamo sulle categorie alle quali esse appartengono. Più marcato è il
coinvolgimento emotivo in ordine a certi valori, più forte è la tendenza a
filtrare le informazioni che riceviamo sugli altri e la conseguente
discriminazione, che diventa particolarmente marcata nelle condizioni di
conflitto o di competizione. Per ridurre pregiudizi e stereotipi non c’è altra
via che instaurare una comunicazione con i gruppi oggetto di pregiudizio,
magari incominciando a conoscere i singoli membri del gruppo, onde evitare di
applicare automaticamente al singolo il pregiudizio negativo che investe l’intero
gruppo. Ma se già abbiamo difficoltà a parlare con quelli simili a noi, come
facciamo a parlare con quelli simili a no, come facciamo a parlare con quelli
che percepiamo diversi da noi?
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di La Repubblica – 8 settembre 2018
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