26 Anni, Laureata, in biotecnologie con il massimo dei voti e da un anno inoccupata.
Fieramente partenopea, in 12 mesi non ho ricevuto nemmeno una chiamata per fare
un colloquio. Come me la maggior parte dei miei amici e colleghi, anche quelli
laureati da più tempo ancora. A eccezione di quelli che hanno deciso di
attraversare il canale della Manica, mentre alcuni di noi sono andati a pulire
i cessi pur di non sentire l’ansia assalirli ogni giorno. Il fatto che questa
condizione sia generalizzata non ci tranquillizza, anzi contribuisce ad
alienarci ulteriormente. Faccio anche mea culpa perché parlo un inglese non
proprio fluente e non ho esperienze di lavoro, fatta eccezione per alcuni (non)
contratti occasionali come lavapiatti. Ho già battuto la strada della terapia.
Vivo un rapporto con un ragazzo bellissimo che potrebbe non amarmi più, perché
la mia crisi personale può avere inquinato anche la mia relazione. Ho letto a
mia madre un articolo dell’Ordine degli psicologi dell’Emilia Romagna che
addita il precariato come causa della nostra adolescenza prolungata. Lei mi ha
chiesto se ora avessi i motivi giusti per suicidarmi. Non era quello l’intento.
Ma quell’articolo mi ha fatto tirare il sospiro di sollievo. Mi ha fatto
sentore un po' più riconosciuta nella mia condizione. Che poi è di tutti.
Restare a Napoli è pressoché impossibile: qua i futuri rosei lascano il posto a
nubi grigie come quelle che intossicavano il Vesuvio tempo fa. Quindi trattengo
il fiato. Ma senza fiato non siamo vivi.
Chiara charamariafrance@gmal.com
Ho Sempre Pensato che oggi i giovani, quando si
ubriacano, quando si ubriacano, quando si drogano, quando dormono fino a
mezzogiorno, quando vivono di notte e non di giorno non lo fanno per il piacere
dell’alcool o della droga, e neppure per la pigrizia che li trattiene dal darsi
da fare, ma per anestetizzarsi da un mondo adulto che non li convoca, non li
chiama per nome, non li vive come una risorsa ma come un problema. E loro non
vogliono assaporare ogni giorno la loro insignificanza sociale. Per questo si
assentano, non parlano tra loro se non tramite i social, con cui condividono la
sfiducia nel futuro, che a loro appare non come una promessa ma come qualcosa
di minaccioso che divora i loro giorni, e poi i loro mesi e i loro anni, senza
profilare non dico una promessa, ma una qualche opportunità, capace di
infondere quel minimo di fiducia indispensabile per vivere. Il lavoro, infatti,
non dà solo uno stipendio. Dà anche una dignità e una socializzazione più vera
e significava di quella virtuale. E sono queste dimensioni che motivano
l’esistenza. La nostra lettrice ci dice che a salvarsi sono solo quelli che
oltrepassano la Manca. E allora verrebbe voglia di dire: fate come i vostri
nonni e bisnonni che attraversavano l’oceano per trovare lavoro e dignità. Ma
ogg le frontiere si stanno chiudendo a doppia mandata, non solo per gli
immigrati, mentre lo sviluppo della tecnica riduce sempre di più i posti di
lavoro ed emargina l’uomo ridotto, quando ha ancora la fortuna di lavorare, a
semplice funzionario di apparati tecnici. A questo punto suona patetica il principio
fondante la morale kantiana: “L’uomo va trattato sempre come un fine e mai come
un mezzo”. L’umanesimo, che ha caratterizzato la cultura occidentale,
rendendola capace di enunciare i “diritti dell’uomo” e, con essi, di praticare
la “democrazia”, sembra abbia esaurito la sua forza propulsiva da quando,
progressivamente, ha subordinato le aspirazioni dell’uomo alle esigenze del
mercato, per cui, quando trattiamo con Paesi dove il mercato confligge con i
diritti dell’uomo e con la democrazia, noi occidentali siamo i primi a
sacrificare questi nostri valori pur di salvaguardare gli interessi del
mercato. E che speranze offre una società che nega il futuro ai giovani, quando
il futuro è già loro per ragioni biologiche, anche se a questo futuro i giovani
non possono prepararsi perché sono esclusi dai percorsi lavorativi, amministrativi,
decisionali. E per giunta le loro visioni del mondo vengono trattate come
ingenue utopie rispetto a quel “sano realismo” che assume il denaro come
generatore simbolico di tutti i valori e scopo ultimo dell’esistenza, e dove è
difficile vedere cosa ci sia di “sano” in questa visione che subordina l’uomo
alla produzione di denaro, distribuito secondo principi di rigorosa
disuguaglianza. Nella lettera di Chiara traspare una sorta di autoironia che è
la risorsa migliore e la più efficace difesa che ci salva dall’abisso della
depressione, la quale toglie le forze e la capacità di cogliere anche quelle
minime occasioni che si presentano per afferrare una prospettiva di futuro.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di La Repubblica – 1 settembre 2018 -
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