Quando, Finita L’Università, trovai il mio primo
lavoro retribuito, mi sentii ricchissima. A darmi quell’illusorio senso di
opulenza non era l’ammontare del salario, in verità piuttosto esiguo, ma la
vertigine di emancipazione che mi provocava. In quel periodo ero molto
munifica: facevo regali grandiosi a parenti e amici perché la condivisione del
mio benessere era i miglior modo per dargli un senso. Così, per il suo
compleanno, regalai a mio padre tre giorni a Lisbona da trascorrere
esclusivamente con me. Da figlia perdutamente innamorata quale ero, avevo
regalato anche a me stessa la felicità di una vacanza solo nostra. Conservo
memorie bellissime di quella parentesi portoghese e in particolare una cena in
un locale affollato. Lui e io, seduti a un tavolino al centro della sala, passammo
la serata a osservare i clienti intorno e a immaginare per loro storie,
relazioni, conversazioni e vite. Scoprimmo di avere la stessa curiosità nei
confronti degli estranei e lo stesso bisogno di riconoscerli e di riconoscerci.
“Sei proprio una pettegola”, mi prendeva in giro. Ma io sapevo che, se
veramente potevo dirmi tale, era merito o colpa sua. Anche ora che lui non è
più qui a guardare il mondo con me, osservo il prossimo con il medesimo
interesse che si fa fascinazione quando, come accade a Lisbona, mi trovo in
luoghi distanti, e i miei simili mi paiono meno simili. Nella città di A in
Massachusetts, dove ho passato l’estate, mi sono iscritta alla scuola di yoga.
L’ho fatto per continuare a praticare una disciplina che mi suscita stupore,
perplessità, dipendenza, ma soprattutto per interesse antropologico, perché
poche attività come lo yoga attirano personaggi curiosi, meritevoli di
scrupolosa osservazione e spesso portatori di follie e meraviglie. Così, armata
dei miei piedi scalzi e della mia natura pettegola, per un mese e mezzo ho
srotolato quotidianamente il materassino al centro della grande sala,
preferibilmente in anticipo rispetto all’orario delle lezioni per osservare
l’ingresso dei miei compagni. Guardavo o, quando il contorsionismo richiesto
dalle posizioni non me lo consentiva, ascoltavo. So che nello yoga bisogna
cercare se stessi, ma io ho spiato i mio prossimo. Ed è stato bellissimo. Se
chiudo gli occhi, ritrovo la sublime carrellata di personaggi che mi hanno
accompagnata in quel memorabile viaggio, e che rappresentano paradigmi umani in
cui specchiarsi. In prima fila c’era il cocco della maestra o come lo chiamano
gli anglofoni, il teacher’s pet, un
signore in canottiera bianca che pendeva dalle labbra dell’insegnante e tentava
con ogni mezzo di farsi notare. Non potendo sedurla con le armi della fluidità,
lo faceva la perversa condivisione dei propri problemi
di schiena. In un angolo strategico, studiato probabilmente ad arte affinchè i
suoni emessi riverberassero in ogni lato della stanza, si collocava
l’ansimante, che per ogni asana regalava alla platea un ambiguo mugolare. La
nevrotica, o controll freak, gestiva
la disposizione dei tappeti sul pavimento, esasperata dalla mancanza di
armonia. La bravissima, od overachiiever,
stava di solito nelle retrovie perché animata da yogica umiltà, ma da lì,
invece di seguire le istruzioni, faceva spaccate, giravolte e piegamenti a
testa in giù degne del circo. L’inserita anticipava le posizioni; la devastata,
probabilmente madre di due gemelli piccoli, stava sdraiata nella posizione del
cadavere per un’ora e mezza; il molesto correggeva il vicino; l’odiatore
lanciava borsa contenente forse una pistola comprata al supermercato. Infine
c’era la straniera pettegola, affascinata da quello spettacolo almeno quanto lo
sarebbe stato il suo papà.
Claudia de Lillo –
Opinioni – Donna di La Repubblica – 25 agosto 2018 -
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