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venerdì 31 agosto 2018

Lo Sapevate Che: Lo yoga serve (anche) a capire gi altri...


Quando, Finita L’Università, trovai il mio primo lavoro retribuito, mi sentii ricchissima. A darmi quell’illusorio senso di opulenza non era l’ammontare del salario, in verità piuttosto esiguo, ma la vertigine di emancipazione che mi provocava. In quel periodo ero molto munifica: facevo regali grandiosi a parenti e amici perché la condivisione del mio benessere era i miglior modo per dargli un senso. Così, per il suo compleanno, regalai a mio padre tre giorni a Lisbona da trascorrere esclusivamente con me. Da figlia perdutamente innamorata quale ero, avevo regalato anche a me stessa la felicità di una vacanza solo nostra. Conservo memorie bellissime di quella parentesi portoghese e in particolare una cena in un locale affollato. Lui e io, seduti a un tavolino al centro della sala, passammo la serata a osservare i clienti intorno e a immaginare per loro storie, relazioni, conversazioni e vite. Scoprimmo di avere la stessa curiosità nei confronti degli estranei e lo stesso bisogno di riconoscerli e di riconoscerci. “Sei proprio una pettegola”, mi prendeva in giro. Ma io sapevo che, se veramente potevo dirmi tale, era merito o colpa sua. Anche ora che lui non è più qui a guardare il mondo con me, osservo il prossimo con il medesimo interesse che si fa fascinazione quando, come accade a Lisbona, mi trovo in luoghi distanti, e i miei simili mi paiono meno simili. Nella città di A in Massachusetts, dove ho passato l’estate, mi sono iscritta alla scuola di yoga. L’ho fatto per continuare a praticare una disciplina che mi suscita stupore, perplessità, dipendenza, ma soprattutto per interesse antropologico, perché poche attività come lo yoga attirano personaggi curiosi, meritevoli di scrupolosa osservazione e spesso portatori di follie e meraviglie. Così, armata dei miei piedi scalzi e della mia natura pettegola, per un mese e mezzo ho srotolato quotidianamente il materassino al centro della grande sala, preferibilmente in anticipo rispetto all’orario delle lezioni per osservare l’ingresso dei miei compagni. Guardavo o, quando il contorsionismo richiesto dalle posizioni non me lo consentiva, ascoltavo. So che nello yoga bisogna cercare se stessi, ma io ho spiato i mio prossimo. Ed è stato bellissimo. Se chiudo gli occhi, ritrovo la sublime carrellata di personaggi che mi hanno accompagnata in quel memorabile viaggio, e che rappresentano paradigmi umani in cui specchiarsi. In prima fila c’era il cocco della maestra o come lo chiamano gli anglofoni, il teacher’s pet, un signore in canottiera bianca che pendeva dalle labbra dell’insegnante e tentava con ogni mezzo di farsi notare. Non potendo sedurla con le armi della fluidità, lo faceva   la perversa condivisione dei propri problemi di schiena. In un angolo strategico, studiato probabilmente ad arte affinchè i suoni emessi riverberassero in ogni lato della stanza, si collocava l’ansimante, che per ogni asana regalava alla platea un ambiguo mugolare. La nevrotica, o controll freak, gestiva la disposizione dei tappeti sul pavimento, esasperata dalla mancanza di armonia. La bravissima, od overachiiever, stava di solito nelle retrovie perché animata da yogica umiltà, ma da lì, invece di seguire le istruzioni, faceva spaccate, giravolte e piegamenti a testa in giù degne del circo. L’inserita anticipava le posizioni; la devastata, probabilmente madre di due gemelli piccoli, stava sdraiata nella posizione del cadavere per un’ora e mezza; il molesto correggeva il vicino; l’odiatore lanciava borsa contenente forse una pistola comprata al supermercato. Infine c’era la straniera pettegola, affascinata da quello spettacolo almeno quanto lo sarebbe stato il suo papà.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 25 agosto 2018 - 

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