Per La Serie “studi e ricerche” inutili che però
tutti finiamo per leggere, questa settimana parliamo di barbe. Con una premessa
necessaria: l’autore di questa rubrica porta la barba, in varie fogge, tagli e,
ahilui, colori, da quando aveva vent’anni, quindi è poco obiettivo in materia.
La barba, dopo decenni di intense e totali rasature, è ridiventata
popolarissima negli Stati Uniti, ormai esibita anche in professioni che un
tempo la aborrivano, come quelle della finanza, della legge, dello sport. Resta
ancora osteggiata dalla politica, per non generare negli elettori già
diffidenti il sospetto che, sotto quella peluria, l’onorevole nasconda qualche
cosa. Richard Nixon, nel 1960, perse il dibattito tv contro il rasatissimo John
F.Kennedy anche per l’ombra corvina che la crescita della sera aveva dipinto
sulle sue guance e che, sotto i riflettori crudeli del bianco e nero, gli dava
un aspetto sinistro. Ma di fronte alla diffusione delle barbe di varia lunghezza
era inevitabile che psicologi, studiosi del comportamento e neurologi armati di
macchinari per la risonanza magnetica si chiedessero quali ragioni potessero
spingere tanti maschi della nostra specie a farsela crescere. E la risposta è,
sorpresa: il sesso. Ogni foggia porta con sé diverse forme di richiamo sessuale
per le femmine e, nella stessa forma, poi gli omosessuali maschi, inviando
segnali e stimoli che i ricercator hanno individuato nell’attività cerebrale.
Una barbetta corta, tipo quattro o cinque giorni, che dona un aspetto
apparentemente trasandato e trasgressivo, attira donne che cercano
un’avventura, senza impegni a lunga scadenza. Con il crescere della peluria,
fino al solido barbone con baffi, diminuisce l’attrazione fisica istantanea,
mentre aumenta l’attenzione delle femmine che progettano di formarsi una
famiglia con quell’uomo. In qualche angoletto oscuro del nostro cervello, pur
nel corso dei millenni, conclude lo studio pubblicato da Evolution and Human Behaviour – pubblicazione seria, non rivista da
barbiere – sopravvive dunque l0idea che un uomo barbuto possa rappresentare una
migliore protezione contro predatori che nella notte vogliano aggredire il
nostro nido, con clava e bastoni. La lunghezza della barba, e cito sempre
l’autorevole studio, che ho letto riassunto sul New York Times perché mai oserei affrontare il voluminoso saggio
originale, dipende in buona parte anche dall’ambiente nel quale vive il
portatore e dal livello socio-economico. Nei quartieri più poveri dove il
richiamo della ricchezza non è sfruttabile, pare che le barbe si infoltiscano e
allunghino, per segnalare il carattere “alfa”, aggressivo e dominante, e si
accorcino e si diradino con l’aumentare del reddito. Ci sono più barbuti in
città che nei sobborghi. Chi ha molti soldi e può esibire segnali di
prosperità, non sente il bisogno di dotarsi di bavaglini pelosi. Da manifesto
di potenza politica ed economica, abbandonato dal 1909, quando entrò alla Casa
Bianca William Taft, l’ultimo presidente americano barbuto, a oggetto di
disprezzo sociale espresso nell’insulto al “barbone”, passando per la moda
ideologica del “barbudo” castrista, oggi la barba è tornata a essere oggetto di
semplice richiamo amoroso. Un richiamo che getta nella disperazione coloro che
non possiedono abbastanza peli e dunque devono ricorrere a trapianti. Il numero
di trapianti di barba si è quadruplicato negli ultimi dieci anni, soprattutto
in Asia, informa sempre l’inutile ricerca scientifica. Alla quale, tuttavia,
qualche ragione devo pur riconoscere, visto che porto la barba da oltre mezzo
secolo e sono felicemente (almeno per me) sposato da altrettanti anni. Per me,
ha funzionato. Anche se non ho mai dovuto respingere assalti di predatori
notturni dalla mia caverna.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di La Repubblica – 15
settembre 2018 -
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