Ho avuto una diagnosi
di sindrome paranoide con disturbo di personalità. Ciò nonostante la mia vita è
costellata di vari interessi, oltre che per le religioni e la filosofia, anche
per la biodanza, la musica a percussione, la meditazione, lo yoga, la palestra.
Non sopporto le voci della tv e della gente che parla a voce alta (gli
organizzati visivi, come li ha definiti la programmazione neurolinguistica).
Soffro per questo e allora sopperisco con qualche immagine mentale di un
religioso cattolico, il papa, un santo, o con delle preghiere. Non c’è cura per
me, però non sono arrivato al punto di mangiare il menù al ristorante, e mi
consola quello che diceva Bateson: che un matto qui in Europa potrebbe essere
uno sciamano o guaritore in Asia o Africa. Paolo
Se nella vita diurna ci comportassimo come in certi
sogni saremmo definiti folli. E se anche nessuno ci rinchiude, perché di fatto
non ci comportiamo come nel sogno, ciò non significa che la follia non ci
abiti. Ci abita eccome. E non è detto che da un momento all’altro non possa
manifestarsi. Soprattutto nelle persone super-razionali che sembrano le più
immuni, mentre invece, non di rado, sono tali perché temono che il vulcano
sotteso alle loro difese razionali possa esplodere. Anche se non è ancora
arrivato a mangiare il menù del ristorante (che in alcuni casi e in condizioni
più catastrofiche qualche voce può anche suggerirlo), il suo disagio mentale ha
già trovato forme con cui compensarsi: la danza, la musica, la meditazione, la
palestra, lo yoga, l’interesse per la religione e per la filosofia. Attraverso
questi percorsi lei ha acquisito una consapevolezza della qualità della sua
sofferenza, ha accettato persino l’ipotesi che le sarà compagna di vita e,
senza drammatizzare, ha trovato le strategie per convincerci, e condividere con
Gregory Bateson la tesi che un matto qui in Europa, potrebbe essere uno
sciamano o guaritore in Asia o Africa. Questa tesi che non nega (che la sua
sofferenza possa avere una radice biologica) è sostenuta anche dalla
psichiatria fenomenologica, da cui ha preso le mosse Franco Basaglia nel
proporre e ottenere la legge sulla chiusura dei manicomi e dell’etnopsichiatria
o psichiatria transculturale, che nega la legittimità di applicare la
nosografia delle malattie mentali, quale è stata elaborata dalla psichiatra
occidentale, alle altre culture non occidentali. Dopo il 1904, quando, di
ritorno da Giava, il famoso psichiatra tedesco Emil Kraepelin scrisse che nelle
isole dell’Indonesia non si riscontravano forme depressive connotate come in
Occidente da vissuti colpevolizzanti, e tanto meno erano rilevabili, perché mascherate
da riti e pratiche religiose (forme psicotiche da noi diffuse come la schizofrenia
o la paranoia), l’ipotesi che i disturbi psichiatrici assumono la lro forma a
partire dalla società e dalla cultura che la caratterizza trovò sempre più
numerosi sostenitori. Tra questi l’etnopsichiatra Georges
Devereux che negli anni ’70 scrisse che la depressione caratterizzata da sensi
di cola, i disturbi alimentari, i disturbi di personalità, l’ansia, il panico
sono da considerarsi disturbi tipici dell’uomo occidentale contemporaneo e che,
per quanto riguarda la psicoanalisi, “Freud non è da considerare come il
fondatore di una nuova scienza, ma come uno studioso di psicologia e di
sociologia molto meticoloso che, dopo aver studiato la classe media viennese
degli anni precedenti la prima guerra mondiale e lavorato con gli indigeni di Vienna,
ha formulato una serie di conclusioni valide per i soli viennesi”. A questo
punto la discriminazione tra “normale” e “patologico” non è più relativa solo
alla “natura”
Del soggetto, ma anche alla sua “cultura” di
appartenenza, con riferimento ai valori medi condivisi dal gruppo, per cui
quello che da noi sarebbe definito schizofrenico, in un’altra cultura, che lo
integrasse e lo onorasse come uno sciamano, non sarebbe avvertito come
patologico. Allo stesso modo, come sarebbero considerati da popolazioni che
vivono a stretto contatto con la natura, certi comportamenti di noi occidentali,
non più cadenzati dall’ordine naturale, ma unicamente da quello artificiale a
noi imposto dal regime della tecnica che conosce solo efficienza e
produttività? A partire da queste considerazioni, non siamo mai lontanamente
sfiorati dal pensiero di quante sofferenze psichiche dovute a disorientamento e
sradicamento possono affliggere i migranti, per non parlare dei casi clinici da
imputare a vittime della tratta e di violenze? Se la sua ipotesi, che
suggerisce di prendere coscienza del relativismo culturale, potesse fare
sorgere in tutti noi un minimo di riflessione su questo tema, la sua lettera
sarebbe davvero di grande insegnamento per tutti noi che ci riteniamo non
pazzi.
umbertogalimberti@repubblica.it
– La Repubblica – 16 marzo 2019 -
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