Sono le sei e dieci di sabato pomeriggio quando Berlusconi e Bersani rientrano in aula per essere lì nel momento in cui Laura Boldrini leggerà per la cinquecentoquattresima volta il nome di Napolitano, confine numerico della rielezione.
Berlusconi ride, giù in basso a destra. Bersani piange, in alto a sinistra. Applaudono, entrambi felici di essere stati riportati in vita dalla concessione del vecchio Presidente: va bene, se non trovate altro, se proprio non c’è altro modo allora accetto. Alle mie condizioni: per un tempo limitato e con un consenso ampio. Berlusconi esulta circondato dalle sue ragazze elette in Parlamento, perché se fossero passati Prodi o Rodotà sarebbe stato fuori dai giochi, dal governo prossimo venturo, da tutto. Così invece si farà un governo all’antica maniera, che sia del presidente o politico non importa: quello che importa è che Berlusconi sarà lì, protagonista di nuovo, resuscitato ancora. S molto pesante, per giunta, nel nuovo governo perché senza l’appoggio di Sel la delegazione Pdl-Lega avrà anche alla Camera la maggioranza, rispetto al Pd. Amato premier Alfano vice, si dice. O forse conterà e deciderà parecchio. Bersani piange di commozione attorniato dai suoi Speranza e Gotor, da Stumpo e da tutto il gruppo dirigente di un partito dissolto in un rivolo di correnti assetate l’una del sangue dell’altra, morto nel minuto esatto di venerdì 19 in cui il fondatore Romano Prodi è stato affondato, dopo essere stato acclamato, da 101 voti occulti in dissenso. Per spregio, per vendetta, per antichi rancori personali e politici.
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Una restaurazione. Una proroga. Una scena anni Novanta che si ripete qui, in aula, oggi, mentre nel mondo fuori circoli del Pd sono in rivolta e le piazze in ebollizione.
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Dopo il funerale del Pd, le esequie di un sistema “chè non rappresenta più né il Paese né se stesso- dice Robert Morassut, pd – e si va diritti verso il presidenzialismo, sperando almeno che sia fatto con buone regole. L’elezione diretta del capo dello Stato, in effetti, ha ormai solo bisogno di norme che la sottraggano al web. Il Parlamento è impotente, paralizzato, barricato dentro le sue mura.
Sono le sei e dieci del pomeriggio, i Cinquestelle sono i soli che restano seduti e non applaudono. Vergognatevi, alzatevi, gli gridano da destra – a destra sono in effetti i più entusiasti. Non si vergognano né si alzano. Pippo Civati, che ha votato scheda bianca e per settimane ha fatto la spola fra i dirigenti Pd e i cinque stelle, dice: “Mi hanno mandato da loro a trattare e poi mi hanno lasciato lì come il soldato Ryan. Nessuno voleva avere notizie. A nessuno interessava niente, dei cinque stelle, in realtà. Volevano solo l’eterno ritorno dell’uguale”.
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Una rielezione, questa di Napolitano, che nasce – dice Walter Verini, veltroniano – “dalla Capaci della politica come quella di Scalfaro nel ’92 determinata dalla morte di Falcone. Solo che oggi la voragine è qui dentro”. Tutta la manfrina sui nomi “divisivi” non era altro che un modo per occultare – male, tra l’altro – l’incapacità alla luce del sole: Pd-Pdl era un inciucio, e così è morto Marini, Pd-Cinquestelle era una resa, e così è morto Rodotà. Prodi è stato ucciso invece per mano Pd, che ha fatto al tempo stesso harakiri. Si torna ora alle casi madri, come da anni invoca D’Alema: un partito nettamente di sinistra che vedrà protagonisti Vendola e Barca, quest’ultimo ieri tardivamente intervenuto a sostegno di Rodotà. E poi il sindaco Emiliano, e i tanti altri che dal Pd in tutta Italia hanno chiesto invano un cambio di passo. “Chiederemo di entrare nell’internazionale socialista”, ha detto Vendola. Chiarissimo, saremo la sinistra in Europa. Dall’altra un partito di centro con una lieve propensione a sinistra, con Renzi alla guida. La scissione è ormai alle porte. Chi ieri ha votato “Francesco Guccini”, nell’urna, dice che “non si può più guardare avanti andando all’indietro”. Dice anche che quando cadono gli equilibristi, al circo, entrano in scena i clown. Ma non c’è niente da ridere, perché “siamo come funamboli che camminano sulla fune, in bilico sul baratro, e l’idea di restare immobili fermando il fim di Napolitano non può funzionare a lungo”. Perché, come tutti sanno, quando si è sulla fune a restare immobili si cade. La paura paralizza, poi uccide.
Concita De Gregorio – Repubblica – 21-04-13
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