12-13 maggio1974: Referendum
sul divorzio in Italia: vince il NO
Il referendum
abrogativo del 1974, meglio noto come referendum sul divorzio, tenutosi il 12 e 13 maggio 1974 in Italia, aveva a
oggetto la richiesta ai cittadini se volessero o meno abrogare la legge 898/70, Disciplina dei casi di scioglimento del
matrimonio, altrimenti nota come «legge
Fortuna-Baslini», dal nome dei primi firmatari del progetto in sede
parlamentare.
Entrata in vigore quattro anni prima, la legge aveva
introdotto il divorzio in Italia, causando controversie e opposizioni, in
particolare da parte di molti cattolici (la dottrina cattolica sancisce
l’indissolubilità del vincolo matrimoniale, ma gli antidivorzisti presentarono
la loro posizione come motivata laicamente, cioè desunta dall’essenza stessa
del matrimonio come istituto didiritto naturale, non come sacramento). Il
fronte divorzista intese la sua battaglia nel senso d’un ampliamento delle
libertà civili, ma anche d’uno spostamento a sinistra del quadro politico
nazionale: alla vittoria del no nel 1974 seguiranno infatti importanti
conquiste elettorali delle sinistre nel 1975 e nel 1976 e la formazione di
governi con l’appoggio esterno del PCI prima nel 1976 e poi nel 1978.
Quadro sociale
Al momento della promulgazione della legge (1º
dicembre 1970) il fronte sociale e politico era fortemente diviso
sull’argomento. Le forze laiche e liberali si erano fatte promotrici
dell’iniziativa parlamentare[1] (la legge nacque, infatti, a opera del
socialista Loris Fortuna e del liberale Antonio Baslini). Forti differenze
erano comunque presenti fra le avanguardie più radicali (femministe, LID,
Partito Radicale, l’ala socialista di Fortuna) e parti consistenti del PCI
orientate verso una trattativa con la DC, o l’ala socialista di De Martino[2][3].
La Democrazia Cristiana e il Movimento Sociale Italiano si erano opposti alla
legge[1],
ma parte del mondo cattolico si era comunque dichiarato favorevole, come le
ACLI, o il movimento dei cattolici democratici di Gozzini, Scoppola, La Valle e
Prodi[4].
Fra i movimenti cattolici solo Comunione e Liberazione era rimasta
completamente fedele alle indicazioni della CEI[3].
Il Vaticano aveva covato in un primo tempo il progetto d’un divorzio
ammissibile per i matrimoni civili e vietato per i matrimoni concordatari (il
progetto era piaciuto ad Andreotti, ma aveva grossi difetti, anche per la
Chiesa): c’era il rischio, con questa normativa, d’incrementare enormemente il
numero dei matrimoni civili. Fanfani aveva preferito una battaglia campale,
confortato in questo da tutto il suo partito, anche se la sinistra DC e il
Governo (compreso il presidente del Consiglio Mariano Rumor) rimasero in
disparte durante la campagna referendaria. Lo schieramento del no era molto
ampio, andando dal PLI di Giovanni Malagodi agli extraparlamentari di sinistra[2].
Posizioni dei partiti
Sì
Democrazia
Cristiana
Movimento
Sociale Italiano – Destra Nazionale[5]
No
Partito
Comunista Italiano
Partito
Liberale Italiano
Partito
Radicale
Partito
Repubblicano Italiano
Partito
Socialista Democratico Italiano
Partito
Socialista Italiano
Libertà di scelta
Südtiroler
Volkspartei[6]
Conseguenze politiche
Amintore Fanfani, segretario dei democristiani e
principale sostenitore del fronte antidivorzista, pagò il maggior scotto dall’esito
referendario.
L’esito del referendum fu altresì interpretato come
una dura sconfitta personale per Amintore Fanfani, visto come l’attore
principale del fronte del sì[8]. Il segretario della DC, infatti, aveva cercato di
sfruttare la campagna referendaria anche a fini prettamente politici[9],
convinto che un’eventuale vittoria abrogazionista avrebbe frenato l’allora
ascesa del PCI di Enrico Berlinguer, al contrario fra i maggiori esponenti del
fronte del no. La sconfitta antidivorzista rappresentò di fatto l’inizio della
caduta politica di Fanfani, tra i più longevi protagonisti della Prima
Repubblica: la successiva débâcle democristiana alle regionali del 1975 lo
costringerà a lasciare la carica di segretario a Benigno Zaccagnini[8].
La vittoria del no fu un duro colpo anche per la
Chiesa, che aveva sospeso a
divinis l’abate Don Giovanni Franzoni,
favorevole al mantenimento della legge. Fanfani, nel luglio 1974, tentò di spiegare
la sconfitta e di attenuarne la portata durante un Consiglio nazionale in cui
sostenne che «la DC non promosse né incoraggiò la richiesta di referendum» e
che «non possiamo concedere che l’essere riusciti a far convergere sulle tesi
sostenute ben tredici milioni di voti rappresenti una sconfitta»[2].
Tendenze regionali del voto
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