Cara Elasti, È Vero che la maternità e le sue
varie sfumature sono una grande, grandissima gioia ma quanto è pur vero che si
annaspa! Si annaspa per lavorare, per avere un minimo di tempo per sé, per
scambiare due parole con un’amica o con il compagno. Io ho due figlie, di cui
una ha appena ha appena un anno, e mi ritrovo sola a Milano senza neppure un
parente che possa supportarci. Ti scrivo perché vorrei parlassi di noi mamme
annaspanti perché lì fuori devono sapere che ci vuole coraggio a cercare di
costruirsi una professionalità con due figli a carico. Sono sforzi intensi,
come la vita del resto, ma vorrei ci fosse più sensibilità da parte dei datori
di lavoro. Ho cambiato posto da poco e spesso ho avuto bisogno di assentarmi
per la malattia dei figli. Mi è stato risposto: “Eh, però le assenze comincia a
essere tante…”. Mi sono sentita sconfitta anche perché questa frase è stata
detta da una donna. Non riesco sempre a trovare una baby-sitter pronta
all’occasione e non ho uno stipendio che mi consenta di pagarne una fissa, e
sono preoccupata di perdere stima e fiducia. È un problema secolare, lo so, ma
occorre parlarne. Per cercare di cambiare qualcosa. Lisa
che annaspa
Dicono che oggi, per fare un figlio, ci voglia coraggio.
Coraggio e spalle larghe e determinazione e resistenza e una buona dose di
follia. Oltre a uno stipendio, preferibilmente fisso. Non stupisce quindi che
la natalità in Italia segni ogni anno un nuovo minimo storico. Non stupisce
nemmeno che l’occupazione femminile sia inferiore al 50%. Perché, ci dicono,
non si può avere tutto dalla vita e a qualcosa bisogna pure rinunciare. Perché
nel nostro paese la conciliazione tra famiglia e lavoro è troppo spesso
un’utopia, un privilegio, un lusso per ricchi o un’acrobazia per funamboli. La
perfezione non è di questo mondo, dicono. Ma l’imperfezione, troppo spesso la
pagano solo le donne. E la tua lettera, cara Lisa che annaspi, ne è la
conferma. I figli sono un nostro problema. Nostro quando, subito dopo il parto,
veniamo lasciate sole con loro che sono minuscoli e non hanno nemmeno un
foglietto di istruzioni, con la nostra inadeguatezza e la nostra inevitabile,
seppure transitoria fragilità. Nostro quando torniamo a lavorare e dobbiamo
fingere che sia tutto come prima. Nostro quando loro si ammalano la domenica
sera e il lunedì mattina in ufficio c’è una riunione imperdibile. Nostro quando
veniamo guardate con sospetto dal nostro capo, che talvolta è una donna, perché
alle sette di sera vorremmo e dovremmo, tornare a casa. Nostro quando ci
infiliamo un tutone e crolliamo addormentate sul divano e i nostri partner si
domandano delusi dove sia finita la femme
fatale che un tempo li seduceva. Nostro quando ci dicono che non siamo
abbastanza o perché troppo ambiziose, o non abbiamo abbastanza grinta perché
troppo chiocce. Nostro quando quel ridicolo abitino di paillette e perfezione
che ci hanno cucito addosso si strappa, e ci accartocciamo sfatte, coperte solo
dalla nostra biancheria scoordinata. Non è un mondo per madri questo. I figli
sono nostri, certo. Ma anche dei padri che troppe volte abitano le retrovie. Ma
anche delle aziende che, per la nostra e la loro salute. Devono inventarsi
tempi e modi nuovi per lavorare. Ma soprattutto i bambini sono patrimonio della
società intera che li deve mettere al centro e non respingerli tra le braccia
delle donne. Perché i nostri figli sono il futuro di tutti e non solo di noi
che annaspiamo. Hai ragione, Lisa bisogna parlarne, fino a stordire il mondo di
parole. Ma bisogna anche puntare i piedi e domandare rispetto e accoglienza.
Perché fare un figlio deve essere solo un gesto d’amore e di fiducia, e non più
di coraggio.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica –
14 luglio 2018 -
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