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martedì 14 agosto 2018

Lo Sapevate Chw: Figlio mio, i libri ti daranno la libertà...


13 AGOSTO 2018
Le riflessioni di un padre-scrittore. L’autore vietnamita  di “Il simpatizzante” racconta come leggere l’abbia reso indipendente e come lo rattristi pensare che lo stesso accadrà al suo bambino 
DI VIET THANH NGUYEN


Ricordate quando avete imparato a leggere? Come la maggior parte delle persone, io no. Ciò nonostante, in molti si consolano sapendo che questo avvenimento, che si sottrae alla memoria, coinvolse i nostri genitori. Nel mio caso, però, una delle cose che da rifugiato ho perduto — senza esserne neanche consapevole, all’epoca — è stata un’infanzia nella quale i miei genitori mi avrebbero letto libri ad alta voce. Sono arrivato negli Stati Uniti a quattro anni, insieme ai miei genitori e a mio fratello maggiore. A casa parlavamo vietnamita, ma chissà come a sei o sette anni avevo già imparato a leggere in inglese. I miei genitori sapevano l’inglese, ma non ricordo che mi abbiano mai letto qualcosa e, se l’avessero fatto, non lo avrebbero fatto in inglese. Devono essere state le maestre, dunque, a insegnarmi a leggere, proprio come hanno fatto le maestre con mio figlio a cinque anni. Quest’anno mi sono assentato per una settimana e, al rientro, il bimbo al quale ero solito leggere libri all’improvviso leggeva per conto suo.

P rovo piacere osservando mio figlio che apprende una lingua e, tramite essa, delle storie. Amo il modo che ha di amare le storie, amo le emozioni vive che infonde loro, amo il suo entusiasmo o il suo timore quando ne legge una molto coinvolgente.
Capisco se un libro è splendido perché si rannicchia accanto a me e mi chiede di leggerglielo più volte.

Nella storia dei miei genitori ci fu l’attraversamento di un confine, il confine di questo paese. Perdemmo molte cose alla frontiera, a cominciare dalla nostra lingua comune. Crescendo, e vedendo i miei genitori che lavoravano con grande fatica per garantire una vita a tutti noi, mi accorsi che la nostra intimità si andava affievolendo di pari passo col mio vietnamita, fino a scomparire. Quanto più i miei genitori riuscivano a prendersi cura dei figli lavorando in modo spossante, tanto meno tempo avevano a disposizione da trascorrere con noi. Fu il classico dilemma dell’immigrato e del rifugiato: sacrificarsi per i propri figli e in tale compito sacrificare l’intimità con loro.

I libri mi hanno salvato, impedendomi di provare la solitudine. Amo i libri a tal punto da aver dato come nome a mio figlio il cognome di uno scrittore, Ellison. Ralph Ellison non fu uno scrittore di libri per bambini, ma scrisse grandi verità, di mondi spaventosi, di ignote interiorità.

I libri non erano una priorità per i miei genitori, e in casa non ne avevamo. Ogni settimana presi l’abitudine di andare alla biblioteca pubblica e riempirne lo zaino, ma mi bastavano a stento per sette giorni. Prima di andare al liceo non ho mai posseduto un libro. Mio figlio ha una collezione di libri più grande di quelle che io ho avuto negli anni. Se i miei genitori mi dimostravano il loro amore assicurandosi che io avessi sempre da mangiare a sufficienza, io dimostro l’amore a mio figlio assicurandomi che abbia sempre libri da leggere a sufficienza (e naturalmente che abbia anche da mangiare a sufficienza). La biblioteca per me era una seconda casa. Io desidero che mio figlio ne abbia una personale a casa mia.

Rievocando quella biblioteca della mia infanzia, so che le biblioteche possono essere anche luoghi pericolosi, perché sono prive di confini. Ci sono paesi denominati “letteratura per bambini” e “fiction per adulti”. Ma quei confini non sono piantonati da guardie. Nel mio caso, non erano sorvegliate neppure da genitori che le controllassero. In una biblioteca comunale un lettore poteva aggirarsi ovunque. E così, intorno ai dodici-tredici anni, lessi Il lamento di Portnoy di Philip Roth e Close Quarters di Larry Heinemann. Del romanzo di Roth per decenni mi è rimasta dentro soltanto la scena ignobile del giovane Alex Portnoy che si masturba con una fetta di fegato destinata alla cena dei suoi familiari. Per quanto riguarda il romanzo sulla guerra del Vietnam di Heinemann, la descrizione esplicita di come i soldati americani avessero trucidato il popolo vietnamita, arrivando anche a commettere stupri, mi inferocì. Desiderai vendetta per il libro di Heinemann, fino a quando non lo rilessi da adulto, nella fase di preparazione del mio romanzo, e capii che aveva ragione. Heinemann aveva voluto far vedere che i mostri selvaggi abitano dentro di noi. E così pure aveva fatto Roth. Diventato io stesso scrittore, ho reso omaggio a entrambi nel romanzo Il simpatizzante: il bambino sconvolto è diventato lo scrittore desideroso di sconvolgere.

Vedendo mio figlio che legge per conto suo, mi rendo conto che sta facendo un passo in più sulla strada verso la sua indipendenza, per diventare qualcuno che oltrepasserà confini credere. Forse, è per questo che vederlo leggere mi infonde un pizzico di malinconia. Ricordo la mia perdita, e percepisco quella che subirò quando mio figlio non sarà più tutto mio, come quando la mattina si sveglia e con le parole più dolci che abbia mai sentito mi chiede: «Papà mi leggi un libro?».
VIET THANH NGUYEN – Cultura –La Repubblica -14 agosto 2018 -

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