Il più preoccupato dei due ambasciatori pensava ai missili con
testate atomiche. Quelli americani puntati sulla Cecoslovacchia dove erano
diretti. L’automobile scura correva sulla strada austriaca verso la frontiera cecoslovacca
con la bandiera del grande paese occidentale dispiegata- Richiamati dai
rispettivi governi i due ambasciatori avevano dovuto abbandonare in gran fretta
le loro famiglie in vacanza. E avevano deciso di raggiungere Praga, da Vienna,
sulla stessa automobile. Nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968 le truppe
del Patto di Varsavia, quelle russe in testa, avevano invaso la Cecoslovacchia
che da alcuni mesi viveva la Primavera, un tentativo di promuovere un comunismo
democratico. Ero a bordo di quella automobile super diplomatica, battente
bandiera occidentale, con a bordo i due ambasciatori. Il mio ruolo, fittizio,
era quella di autista di riserva. Era il solo modo in quelle prime ore
dell’invasione per raggiungere Praga, dove i carri armati sovietici occupavano
già piazza Venceslao. I due ambasciatori mi avevano dato generosamente un
passaggio, facendomi passare per un loro dipendente. I giornalisti in quella
prima fase dell’invasione non erano graditi. Gustave, chiamerò così uno degli
ambasciatori, parlava della famiglia lasciata su una spiaggia mediterranea. “Ci
siamo salutati in fretta con mia moglie. Il dovere lasciava poco tempo”.
Salvatore, chiamerò così l’altro ambasciatore, aveva lasciato i suoi sulle
Alpi. “Un bacio di fretta e via di corsa”. Raccontati i momenti della partenza
precipitosa per Vienna, seguì un lungo silenzio. La strada era spesso bloccata
dal traffico. Ma la nostra automobile nera si distingueva per la bandiera che
incuriosiva o intimidiva. Io stavo impettito accanto all’autista in livrea. Non
avevo neppure il cappello con la visiera. “Se ci fanno storie lo facciamo scendere”, disse Gustavo sottovoce a
Salvatore indicandomi con un cenno della testa. Ma nessuno osò violare
quell’automobile diplomatica. E io ascoltai per ore un dialogo che quel giorno
di grande tensione internazionale non sembrava surreale, né grottesco come
sembra oggi, e forse rifletteva in quel momento pensieri assai diffusi. Quanti credi
che siano quelli puntati su Praga, Gustave? Non ne ho un’idea, ma devono essere
tanti nel quadro della Nato. Americani?
Senz’altro, ma non soltanto. E molti con testate atomiche. Certo, la
nostra destinazione non è delle più sicure. Può essere il primo obiettivo. Il
quartiere di Malastrana, dove sono le nostre ambasciate, sulla strada del
Castello, non può essere un obiettivo. È un celebre centro storico europeo.
Caro Salvatore, in questa atmosfera con le truppe del Patto di Varsavia che
avanzano in massa verso il confine con l’Occidente, gli obiettivi cambiano di
valore. Non credi che Mosca abbia informato Washington? La diplomazia in queste
ore dispone di un piccolo spazio di manovra. C’è il Viet Nam: i russi lasciano
fare in Estremo Oriente e gli americani lasciano fare in Europa. Per fortuna le
nostre famiglie sono al sicuro. L’Occidente non può restare passivo di fronte a
un’azione di queste dimensioni. C’è il rischio di una guerra civile: Radio
Praga continua a trasmettere notizie sulla riunione straordinaria del partito
comunista cecoslovacco. Neppure tu, nella tua ambasciata, hai un rifugio sicuro.
Nessuno ha mai pensato di crearne uno. Del resto non credo che i cecoslovacchi,
sia pure per difendere la loro Primavera, siano pronti a puntare le armi contro
i sovietici. Né i sovietici vogliono altri morti, oltre quelli che si contano
finora. Più la conversazione avanzava e più i
riferimenti a una minaccia atomica diventavano rari. Apparivano surreali. Le
emozioni si raffreddavano. Ebbi l’impressione che i due ambasciatori si
vergognassero di aver immaginato disastri nucleari. La notte insonne aveva
contato. Arrivati al confine, i soldati cecoslovacchi salutarono la macchina
che batteva bandiera occidentale. Dopo cinque chilometri incontrammo i primi
carri armati sovietici. Vi furono alcuni momenti di incertezze, poi i carri
armati si scostarono per lasciar passare la macchina diplomatica. Gustave disse
a Salvatore che i missili della Nato si sarebbero comportati come i blindati
dell’Armata rossa. Così arrivammo indisturbati a Praga dove su piazza
Vinceslao, in quella drammatica giornata d’agosto del 1968 i carristi russi subivano
gli insulti dei giovani di Praga. E gli ambasciatori erano ridiventati scettici
come di solito uno immagina siano i diplomatici. È un innocente e drammatico
ricordo di cinquant’anni fa.
Bernardo Valli – Dentro E Fuori –
L’Espresso – 19 agosto 2018 -
Nessun commento:
Posta un commento