“A Ci Appartén?” In barese significa “a chi
appartiene?”, ed è una domanda che l’economista marxista pone spesso, talvolta
per scherzo talvolta no, quando si parla di qualcuno o quando si incontra uno
sconosciuto, soprattutto se siamo in Puglia. Il quesito tuttavia non si
riferisce alla proprietà privata, che per mio marito e alcuni altri è un furto,
ma a un concetto più ampio e profondo che riguarda le origini e le identità.
Per anni l’ho preso in giro per questa abitudine provinciale, per questa
tendenza a incasellare il prossimo, per questa malsana voglia di riconoscersi e
di riscoprirsi, alla fine, tutti cugini, tutti membri di una stessa
squinternata famiglia. Poi, come spesso accade, i figli adolescenti, con il
loro talento implacabile nel fare a pezzi le nostre poche certezze, ci mostrano
il loro personale punto d vista e illuminano di luce nuova e feroce il nostro
fragile credo, Quest’estate, come le nove precedenti, trascorriamo due mesi in
una piccola cittadina tra i boschi del Massachusetts; e, per il secondo anno
consecutivo, il primogenito quindicenne frequenta il campo estivo Great Books,
dove, per quattro settimane 24 ore su 24, un centinaio di teenager si dedica
alla lettura di testi classici e non, a dibattiti e autocoscienza. “Questa è la sua gente. Lui qui è a casa
sua!”, ci disse l’anno scorso la direttrice, quando lo andammo a riprendere. “E
pensare che non ci voleva venire”, pensammo no, senza dare troppo peso alle sue
parole ma sorpresi che attività tanto intellettuali potessero sedurre nostro
figlio, che coltiva con passione solo la sua tartaruga addominale. Lui ha
trascorso l’intero anno in trepidante attesa di un ritorno “tra la sua gente”.
“Vo non capite ma io appartengo a quel posto”, ha ripetuto da settembre a
giugno. E vedendolo radioso di una felicità perfetta, incontenibile e insolita,
ho ripensato a quella domanda, un tormentone familiare che arriva da lontano ma
ci riguarda da vicino. A chi apparteniamo? Quel ragazzo dagli occhi inspiegabilmente
blu che mi chiama mamma e che adesso sta discettando di vendetta nella
letteratura e leggendo Garcia Marquez e Neruda e Singer, appartiene a noi che
siamo le sue radici, ma anche a un luogo a noi remoto e alieno, vietato agli
adulti, in cui si compiono impensabili magie come la fascinazione per la
lettura e un senso inevitabile e prepotente di inclusione. E appartiene anche a
una ragazzina afroamericana del Tennessee, a cui è stato fedele a distanza per
un anno intero, mostrando un altro ingrediente ancora della sua pasta acerba. E
probabilmente, a chiederglielo, appartiene anche ad altri mondi che ignoro, al
pari della precisa collocazione geografica del Tennessee. E se lo chiedessi a
mio marito? ”Tu, a ci appartine?”. Alla sua città di cui si ostina
orgogliosamente a usare il dialetto, alla sua famiglia grande e luminosa, a me perché
ci siamo scelti tanti anni fa e continuiamo a farlo oggi, ai figli che sono il
nostro futuro. A Londra dove lavora e abita, alla sua moglie inglese, creatura
immaginaria (?) partorita dalle mie paure ma vivida, plausibile come una doppia
vita, e ad altro ancora su cui talvolta mi interrogo. A chi appartiene mia
madre? A un mistero fatto di un passato in cui non ho abitato. A chi appartiene
mio padre? È troppo tardi per chiederglielo. A chi appartengo io che vengo da
una famiglia disarticolata, che ho radici labili e confuse, priva di tradizioni,
incapace di chiamarmi? A chi appartengo io, che da bambina volevo
disperatamente appartenere solo a un’anonima e inafferrabile normalità? L’appartenenza
si può scegliere? E l’identità? Non sempre, non tutta, ma provarci può renderci
più consapevoli e forse più liberi.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 4 agosto
2018 –
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