A casa di mia madre avevo una camera che condividevo con
mio fratello. Negli anni di università era diventata, come accade a chiunque
vada a studiare fuori, una sorta di tana in cui custodivo ciò che per motivi di
spazio e praticità non potevo portare con me. Essendo figlio degli anni
Ottanta, nella mia vecchia camera c’era una quantità incredibile di fotografie.
Foto di ogni forma e stampate su ogni tipo di carta. Anche i colori variavano a
seconda di quando erano state scattate e sviluppate, e del tipo di rullino e di
macchina fotografica utilizzati. Foto opache, altre ruvide, altre ancora
quadrate. Ci sono poi le polaroid, regalo di Natale di qualche amico, quelle
specialmente sono diventate di un colore strano, come se fossero state immerse
nel latte per qualche tempo e più di altre danno il senso del trascorrere degli
anni. Ora la mia camera non esiste più – ordinarie rivoluzioni hanno portato
la mia famiglia lontano dai nostri luoghi d’origine – e tutto quello che vi
custodivo, in mia assenza, ha cambiato dimora. Le mie cose più preziose sono
conservate in scatoloni che piano piano, negli anni, ispeziono. Ma i progressi
che faccio nella scoperta del loro contenuto sono esegui perché ogni volta
passo ore a selezionare foto, a guardarle, a ricordare quando sono state scattate,
da chi e dove. E così accade che ripercorrendo le tappe della mia vita è come
se vivessi decine di altre vite. Quelle foto vecchie, ingiallite, sbiadite, mi
ricordano non solo come eravamo tutti, le nostre vecchie abitudini, quegli
strumenti ora estinti. Mi capita tra le mani l’immagine di un bimbo biondo e
paffuto, goffamente appoggiato a una colonna imponente e, come miccia, innesca
ricordi. Dalla nascita sin alla mia prima morte, ogni
esatte l’ho trascorsa accanto alla pietra greca di Paestum. In questa foto ho la
piccola mano poggiata sulla colonna di un tempio. Non riesco a capire quale. Cerere
il tempio che ho più amato? Poseidone quello verso cui mi avvicinavo
circospetto, considerandolo il severo grande padre? La Basilica che
attraversavo correndo? Ora ripescando questa foto degli anni ’80 mi è salita
una nostalgia. Ho gli occhi chiusi come in molte foto da bambino: “Tienili
chiusi e quando ti dico aprili, sgranali!”. E ovviamente non eravamo mai in
sincronia. Vorrei tornare tra i templi, tra quel tesoro tanto antico venuto
alla luce, in tutta la sua magnificenza e complessità, solo a partire dal
secondo dopoguerra. Ma da quando la mia vita è cambiata, ho smesso di
trascorrere il mio tempo e così, ogni estate, mi assale la nostalgia. Sono abbastanza convinto che il morire non accada una sola volta. La prima morte ha
interrotto tutto ciò che ero, ha spezzato quelle abitudini che quando le hai ti
sembrano valere poco, ma quando le perdi le riscopri pietre angolari,
coordinate che ti lasciano senza equilibrio e alla ricerca di un nuovo
baricentro. E le pietre della antica Poseidonia sono state a lungo le mie
pietre angolari. Sono convinto che queste pietre abbiano contribuito come
lievito a farmi appassionare all’uomo, alla sua storia – alla nostra storia –
alle sue rivoluzioni, alle vittorie, alle sconfitte, ai suoi fasti e all’inevitabile
declino. Siete mai stati Paestum? a Nessuna esperienza è paragonabile:
si è travolti dalla potenza della ragione greca, dalla grazia delle sue
pitture. La tomba del tuffatore, che ho conosciuto da bambino, quando ancora
era possibile per me dare alla morte un significato diverso dalla semplice fine
di ogni cosa terrena, l’ho sempre immaginata come l’augurio di un cambiamento,
un passaggio dall’esito incerto. Ed è come se quel tuffo abbia segnato la mia
vita: un passaggio in vita e l’inizio ad altra vita. La fine di una vita e l’inizio
di una nuova avventura del tutto inattesa. Devo a Paestum molto, devo molto al
suo vivere secondo regola, regola di un filosofo che probabilmente, tra questi
templi, passeggiava essendo dea vicina Elea, Magna Grecia, oggi Ascea.
Parmenide, l’unico “italiano” ad aver conosciuto e parlato con Socrate. È a
Paestum che ho appreso come vivere secondo la sua regola, “sempre guardando
verso i raggi del sole”.
Roberto Saviano – L’antitaliano – L’Espresso – 19 agosto 2018 -
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