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mercoledì 22 agosto 2018

Lo Sapevate Che: Ti conosco da 10 minuti e già mi abbracci?!...


Da Bambina Volevo solo essere normale. Con l’età s’impara che quello di normalità è un concetto soggettivo, fluido, inafferrabile, probabilmente perché inesistente. Da piccoli invece la normalità è un traguardo o un superpotere che consente di essere uguale agli altri, trasparenti, mirabilmente confusi tra i propri simili. Figlia di genitori separati in un’epoca in cui quelli come me erano esemplari rari, nipote di una nonna atea, ebrea e comunista, in una scuola pubblica in cui la mattina si recitavano le preghiere cantando, timida e insicura, per indole innata e per educazione ricevuta ho introiettato prestissimo il concetto di misura o di contegno. La misura era la capacità di non farsi notare, di stare nei margini, di tacere o al massimo parlare a bassa voce, di stare composta al mio posto, di non esprimere i miei pensieri strani e i miei slanci sghembi, di non mostrare a nessuno le crepe della mia fragile corazza, gli abissi tetri dei miei vuoti e il fulgore chiassoso dei miei pieni. Sono cresciuta così: controllata, forse repressa, intrappolata in un modello algido e tetragono che non mi somigliava. Gli anni mi hanno aiutata ad affrancarmi ma le radici che affondiamo durante l’infanzia sono quelle più profonde e resistenti, e anche oggi che ho imparato a lasciarmi andare, malgrado l’economista marxista barese continui a rimproverare alcune mie rigidità, resto sempre interdetta al cospetto di chi invece si lascia trasportare dal guizzo estemporaneo, dalle urgenze contingenti, dalle pulsioni improvvise. Per questo, dopo dieci estati consecutive trascorse nella città di A. in Massachusetts, fatico ancora ad abituarmi alle stranezze dei suoi abitanti e alla loro impudica spontaneità, che non so se attribuire alla pasta acerba di un popolo più giovane e ingenuo del nostro o alla specificità di questa cittadina un po' hippie dominata dal binomio, diventato imperativo, peace&love. E mentre qui tutti fanno finta di essere sani, come nella canzone di Gaber, io passo la vita a interrogarmi sui confini dell’espressione di sé. Durante una lezione al centro yoga di questo luogo tra i boschi. La mia vicina di tappetino ha cominciato a gemere e a mugolare come se, contemporaneamente alla pratica, stesse doppiato un film porno. E quel che era, per me, ancora più incredibile di quegli inequivocabili versi, era la totale indifferenza dei compagni di corso e dell’insegante. Come se non importasse, come se fosse normale, come se gli strani, lì dentro, fossimo io e il mio disagio. Ho partecipato a una cena in cui il padrone di casa, un compassato docente ultracinquantenne, si è messo a singhiozzare raccontando la storia di Plutone e del suo scopritore, beffato, peraltro post mortem, della retrocessione del suo corpo celeste da nono pianeta del sistema solare a pianeta nano. E mentre l’ospite piangeva tutte le sue lacrime per l’errore di uno scienziato, i commensali non battevano ciglio. Una tizia sconosciuta mi ha offerto 10 dollari in un gran magazzino affinché comprassi a mio figlio un inguardabile abito da bandiera americana di cui lui si era innamorato. Un signore mi ha fermata in mezzo alla strada per mostrarmi la meraviglia di un mostruoso bacherozzo blu che teneva dentro il palmo della mano. La madre di un compagno di campo estivo del mio terzogenito, conosciuta un lunedì, il mercoledì mi ha abbracciato forte e mi ha detto che mi voleva bene. E avevamo scambiato non più di 20 parole. Non li capisco. Eppure subisco il fascino del loro trasporto, del loro entusiasmo, bambino, la seduzione del loro scoprirsi. E ancora di più ammiro chi riesce ad annullare il giudizio, lo sgomento, la grassa risata, il cinismo di fronte alla nudità del re o del prossimo.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica -18 agosto 2018 -

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