Da Bambina Volevo solo essere normale. Con l’età
s’impara che quello di normalità è un concetto soggettivo, fluido,
inafferrabile, probabilmente perché inesistente. Da piccoli invece la normalità
è un traguardo o un superpotere che consente di essere uguale agli altri,
trasparenti, mirabilmente confusi tra i propri simili. Figlia di genitori
separati in un’epoca in cui quelli come me erano esemplari rari, nipote di una
nonna atea, ebrea e comunista, in una scuola pubblica in cui la mattina si
recitavano le preghiere cantando, timida e insicura, per indole innata e per
educazione ricevuta ho introiettato prestissimo il concetto di misura o di
contegno. La misura era la capacità di non farsi notare, di stare nei margini,
di tacere o al massimo parlare a bassa voce, di stare composta al mio posto, di
non esprimere i miei pensieri strani e i miei slanci sghembi, di non mostrare a
nessuno le crepe della mia fragile corazza, gli abissi tetri dei miei vuoti e
il fulgore chiassoso dei miei pieni. Sono cresciuta così: controllata, forse
repressa, intrappolata in un modello algido e tetragono che non mi somigliava.
Gli anni mi hanno aiutata ad affrancarmi ma le radici che affondiamo durante
l’infanzia sono quelle più profonde e resistenti, e anche oggi che ho imparato
a lasciarmi andare, malgrado l’economista marxista barese continui a
rimproverare alcune mie rigidità, resto sempre interdetta al cospetto di chi
invece si lascia trasportare dal guizzo estemporaneo, dalle urgenze
contingenti, dalle pulsioni improvvise. Per questo, dopo dieci estati
consecutive trascorse nella città di A. in Massachusetts, fatico ancora ad
abituarmi alle stranezze dei suoi abitanti e alla loro impudica spontaneità,
che non so se attribuire alla pasta acerba di un popolo più giovane e ingenuo
del nostro o alla specificità di questa cittadina un po' hippie dominata dal
binomio, diventato imperativo, peace&love. E mentre qui tutti fanno finta
di essere sani, come nella canzone di Gaber, io passo la vita a interrogarmi
sui confini dell’espressione di sé. Durante una lezione al centro yoga di
questo luogo tra i boschi. La mia vicina di tappetino ha cominciato a gemere e
a mugolare come se, contemporaneamente alla pratica, stesse doppiato un film
porno. E quel che era, per me, ancora più incredibile di quegli inequivocabili
versi, era la totale indifferenza dei compagni di corso e dell’insegante. Come
se non importasse, come se fosse normale, come se gli strani, lì dentro,
fossimo io e il mio disagio. Ho partecipato a una cena in cui il padrone di
casa, un compassato docente ultracinquantenne, si è messo a singhiozzare
raccontando la storia di Plutone e del suo scopritore, beffato, peraltro post
mortem, della retrocessione del suo corpo celeste da nono pianeta del sistema
solare a pianeta nano. E mentre l’ospite piangeva tutte le sue lacrime per
l’errore di uno scienziato, i commensali non battevano ciglio. Una tizia
sconosciuta mi ha offerto 10 dollari in un gran magazzino affinché comprassi a
mio figlio un inguardabile abito da bandiera americana di cui lui si era
innamorato. Un signore mi ha fermata in mezzo alla strada per mostrarmi la
meraviglia di un mostruoso bacherozzo blu che teneva dentro il palmo della
mano. La madre di un compagno di campo estivo del mio terzogenito, conosciuta
un lunedì, il mercoledì mi ha abbracciato forte e mi ha detto che mi voleva
bene. E avevamo scambiato non più di 20 parole. Non li capisco. Eppure subisco
il fascino del loro trasporto, del loro entusiasmo, bambino, la seduzione del
loro scoprirsi. E ancora di più ammiro chi riesce ad annullare il giudizio, lo
sgomento, la grassa risata, il cinismo di fronte alla nudità del re o del
prossimo.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica -18
agosto 2018 -
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