In Relazione all’Argomento che la scienza, a
differenza della fede, non ha bisogno di testimonianza, lei sa meglio di me che
i dati statistici possono essere manipolati e interpretati in base all’idea che
si vuole dimostrare. Dato che gli scienziati costruiscono le loro verità in
laboratorio, in quanto nella realtà entrano in gioco un’infinità di variabili
che è impossibile prendere tutte in considerazione, le chiedo: c’è più verità
nella testimonianza di chi ha fede o nella statistica delle probabilità della
scienza? mt256@libero.it
Il Lettore Si riferisce a una
lettera in cui si discuteva del valore della testimonianza, che è necessaria
per chi professa una fede, mentre non lo è per chi sostiene una teoria
scientifica, perché a differenza del contenuto di fede, la teoria scientifica
poggia su prove, argomenti e sperimentazioni. Questa è anche la ragione per
cui, come sostiene Karl Jaspers, Giordano Bruno non poteva ritrattare e sue
teorie perché, non essendo dimostrate ma solo intuite e ipotizzate,
necessitavano della sua testimonianza fino alla morte sul patibolo, mentre
Galileo poteva ritrattarle, come appunto avvenne, perché, essendo le sue teorie
dimostrate e sperimentate, esse stavano in piedi anche senza bisogno della
testimonianza di chi le enunciava. Ma il lettore obietta che, dal momento che
la scienza compie le sue sperimentazioni in laboratorio dove non intervengono
tutte le variabili che caratterizzano i ondo della vita, non è il caso di porre
la domanda che chiede: “C’è più verità nella testimonianza di chi ha fede o
nella statistica delle probabilità della scienza?! La mia risposta è: in
nessuna delle due. La fede crede perché non sa. Io non credo che due più due fa
quattro perché lo so, ma credo ad esempio che Cristo è figlio di Dio perché
credo nei Vangeli che lo attestano e perché credo che, leggendo quei Vangeli,
intendo che il senso di ciò che è scritto corrisponde esattamente al senso che
chi l’ha scritto intendeva affidare al suo testo. Vede quanti atti di fede sono
richiesti per credere? Questa è la ragione per cui Tommaso d’Aquino nel De fide scrive che: “L'assenso
fideistico non è determinato dalla cogitazione e non è promosso dall’evidenza
del contenuto, ma da un fattore esterno, la volontà. (…) Per questo, a
differenza della scienza espressa dalla ragione umana, la fede imprigiona
l’intelletto trattenuto da termini estranei e non propri. Come dice Paolo la
fede “riduce in schiavitù ogni intelletto, per cui l’intelletto è inquieto,
anzi si sente in uno stato d’infermità e di grande timore e tremore” “. La fede
quindi, come testimoniato dai testi su cui è costruita la teologa cattolica,
non ha alcuna parentela con la verità. Ma neppure la scienza, sia pure per
ragioni radicalmente diverse, può vantare una qualche parentela. La scienza,
infatti, è un sapere oggettivante, valido per tutti, riproducibile ovunque, da
chiunque con il medesimo risultato. Ma che significa “oggettivante”? Significa
che la scienza non conosce la natura in sé, ma solo come appare quando è posta
di fronte (questo significa ob-jectum)
alle ipotesi che sono state anticipate per interpretarla, per cui la scienza
non perviene a conclusioni “vere”, ma semplicemente a conclusione “esatte”,
ossia ottenute (ex-actu) dalle
ipotesi che sono state anticipate. Se cambiano queste ipotesi, come avviene
ogni volta che assistiamo a un progresso scientifico, cambiano anche le
conclusioni. Se ne deduce che la scienza non dice la verità, ma esprime
unicamente un sapere ipotetico-deduttivo, ossia che dipende dalle ipotesi
anticipate da cui si deducono delle conclusioni. La verità nasce solo quando un’affermazione è
in grado di negare tutte le sue negazioni. Se dico “Dio esiste” questa
affermazione è un atto di fede. Diventa verità se sono in grado di invalidare
tutte le possibili negazioni dell’esistenza di Dio. Impresa che mi pare
abbastanza ardua. Ma anche se ci riuscissi, se in un domani, anche dopo secoli
dalla mia morte, dovesse comparire un’argomentazione che nega l’esistenza di
Dio torna ad essere un atto di fede. A questo allude l’espressione che
definisce la verità figlia del tempo, perché nulla ne garantisce la validità
eterna. Per questo Karl Jaspers apre il suo libro Della verità (Bompiani) con questa espressione: "Noi non viviamo
immediatamente nell’essere, perciò la verità non è in nostro possesso
definitivo. Noi viviamo nell’esserci temporale, perciò la verità è la nostra
via”. Con questa risposta so di avere annoiato quanti non sono interessati a
simili questioni, ma sarebbe bene, una volta tanto, che si smettesse di usare
con trascuratezza e indifferenza parole come fede, scienza e verità che hanno
degli statuti ben precisi che vale la pena di conoscere per evitare pensieri
rozzi e pratiche discorsive confuse.
umbertogalimberti@repubit – Donna di La
Repubblica – 18 agosto 2018 -
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