Legale nel Medioevo, abolita nell’800,
risorta nel 900 come pratica poliziesca extralegale, la tortura è al centro di
un dibattito ancora irrisolto, spesie negli Stati Uniti, dove alcuni politici e
intellettuali ne chiedono la reintroduzione, dichiarandola legittima “a fronte
di necessità”. Tanto cinismo non deve stupire. Persino la tesi che convinse i
sovrani europei ad abolirla – formulata in Dei
Delitti e delle pene (1764) di Cesare Beccaria – aveva una base utilitaristica:
invece di puntare sull’argomento umanitaria, Beccaria dimostrò che la tortura
era “inutile” cioè inadatta a scoprire la verità. Quasi tre secoli dopo questa
tesi è ancora oggetto di controversia. I fautori della tortura propongono un
esperimento mentale noto come ticking
bomb scenario (senario della bomba a orologeria): un uomo a conoscenza di
informazioni su un imminente attacco terroristico è nelle mani delle autorità.
E’ lecito torturarlo al fine di salvare vite innocenti? Il problema se l’è
posto ultimamente non un politico, ma un neuro scienziato del Trinity College
di Dublino, Shane O’Mara, autore per la Harvard University Press del saggio Why
torture doesn’t work (perché la tortura non funziona). La spiegazione, affidata
a oltre trecento pagine di neurofisiologia dell’interrogatorio, è in realtà
semplicissima: la tortura compromette i processi cognitivi necessari a
recuperare dalla memoria informazioni esatte, quindi è utile solo a estorcere
confessioni, non verità. O’Mara ha passato in rassegna tutte le ricerche
disponibili sugli effetti neurofisiologici prodotti nell’uomo (e nell’animale)
da dolore, paura, freddo e privazione del sonno, concludendo che non vi è
alcuna evidenza scientifica che giustifichi l’uso della tortura, a maggior ragione
se ciò che si vuole ottenere sono informazioni vitali. Ecco cosa avviene, in
sintesi, nel torturato: il prolungato rilascio di ormoni dello stress inibisce
il lavoro dell’ippocampo (fondamentale nelle funzioni mnemoniche) e della
corteccia prefrontale (implicata nei processi decisionali), mentre iperstimola
l’amigdala, struttura cerebrale che, oltre a gestire le emozioni, preside a
importanti comunicazioni con il resto del cervello. In sostanza, la paura
induce il soggetto a parlare ininterrottamente, ma ragionamento e memoria non
lo soccorrono, provocando un fiume di informazioni contraddittorie che in molti
casi confonde persino il torturatore. Il saggio di O’Mara mette in discussione
l’intero processo: da diversi studi emerge che chi è addestrato agli
interrogatori è più incline a pensare che gli si stia mentendo, quindi rincara
la dose, atteggiamento che alla lunga provoca nel torturatore disturbi
psicologici simili a quelli post traumatici. Inoltre, i reparti che usano la
tortura mostrano segni di degrado professionale, perché torturare aumenta
l’inclinazione a rompere le regole, crea disagio e inefficienza. Conclude
O’Mara: “L’interrogatorio richiede doti raffinate: istruzione, consapevolezza
di sé, curiosità genuina e capacità di stabilire un dialogo. Come dicono gli
stessi professionisti del settore, la tortura è per dilettanti”.
Giulia Villoresi – Scienze – Il Venerdì di Repubblica – 15
gennaio 2016
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