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giovedì 21 gennaio 2016

Lo Sapevate Che: Com'è povero il mondo chiuso in un telefonino...



Ritengo che nel modo di comunicare di una società si possa manifestare la sua profonda essenza. E oggi sono i social network (Twitter e Facebook in primis) la tappa ultima all’interno del processo di sviluppo dei nostri strumenti comunicativi. Ciò che si mostra nella vetrina virtuale è quanto vorremmo che gli altri vedessero di noi, esprime il desiderio di costruzione di un nuovo io, la ricerca di approvazione, più che di reale comprensione. Il social finisce così per veicolare istanze profonde e attese tradite, le quali, piuttosto che incentivare una spinta propulsiva, si cristallizzano in quella vuota vetrina. Oltre a ciò, tali mezzi appaiono come luoghi di non dialogo, come il trionfo della pigrizia del pensiero. Il desiderio di comprensione reciproca si riduce a passive condivisioni o a istantanei “mi piace”. La parola si svuota, l’argomentazione non conta, quel “mi piace” è ciò che più di ogni altra cosa ci interessa. Siamo poco altro che merci in pubblica esposizione. I messaggi divengono slogan (Twitter), in grado di incarnare in sé quello spirito pubblicitario del quale mostrano di essersi appropriati. Se è vero che la validità di qualcosa dipende dall’uso che se ne fa, non è possibile sfuggire a tali logiche, una volta accettate. L’oggetto finisce così per ingabbiare il soggetto all’interno del suo sistema. Chi sta scrivendo non pretende di esserne esente: è un “malato” che cerca di comprendere la propria malattia.
Mirko Dolfi  dolfimirko@gmail.com
(..). Lei non è “malato”, malata è la forma che ha assunto la comunicazione di massa, dove chi riceve un messaggio finisce per leggere le identiche cose che egli stesso potrebbe tranquillamente scrivere, e chi scrive narra le stesse cose che potrebbe leggere inviate da chiunque. Il risultato è una sorta di “comunicazione tautologica” che, paradossalmente, finisce per abolire la necessità e, al limite, l’utilità della comunicazione. Tuttavia non vi si rinuncia perché, come lei giustamente osserva, lo scopo di questo tipo di comunicazione è “il desiderio di costruzione di un nuovo io e la ricerca di approvazione”. Due cose che denunciano da un lato la non accettazione di sé, e dall’altro quella forma d’insicurezza che affida all’approvazione degli altri il riconoscimento di chi si vorrebbe essere e non si è. (..). Così ci si mette in mostra come i prodotti si mettono in vetrina. E senza accorgersene diventiamo una “mostra” che chiunque  può visitare. E poi approvare o disapprovare, non argomentando – non si può con 140 caratteri – ma scrivendo semplicemente “mi piace” o “non mi piace”.(..). Se poi vogliamo considerare i danni fisici, che potrebbero preoccupare anche chi non è interessato al pensiero, mi diceva un primario di oculistica che i giovani d’oggi non sanno più vedere a distanza, e la preside di un liceo artistico mi riferiva che i suoi alunni non riescono più a percepire la prospettiva. E’ un mondo accorciato, un mondo ridotto a quella breve distanza che separa il mio occhio dal telefonino, che mi fa vedere non il mondo reale ma il mondo in immagine, non di rado manipolato dagli operatori di mercato che riescono a intercettare anche i nostri gusti, per vendere gli oggetti che li soddisfano. Ma si può prescindere da questi mezzi di comunicazione oggi diffusi su vasta scala? No. Perché, siccome il mondo della comunicazione passa attraverso questa rete, uscirne equivale a un’esclusione sociale. E nessuno vuole provare l’angoscia e la solitudine di questa esclusione.
umbertogalimberti@repubblica.it – Donna di Repubblica – 16 gennaio 2016

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