Ritengo che nel modo di
comunicare di una società si possa manifestare la sua profonda essenza. E oggi
sono i social network (Twitter e Facebook in primis) la tappa ultima
all’interno del processo di sviluppo dei nostri strumenti comunicativi. Ciò che
si mostra nella vetrina virtuale è quanto vorremmo che gli altri vedessero di
noi, esprime il desiderio di costruzione di un nuovo io, la ricerca di
approvazione, più che di reale comprensione. Il social finisce così per veicolare
istanze profonde e attese tradite, le quali, piuttosto che incentivare una
spinta propulsiva, si cristallizzano in quella vuota vetrina. Oltre a ciò, tali
mezzi appaiono come luoghi di non dialogo, come il trionfo della pigrizia del
pensiero. Il desiderio di comprensione reciproca si riduce a passive
condivisioni o a istantanei “mi piace”. La parola si svuota, l’argomentazione
non conta, quel “mi piace” è ciò che più di ogni altra cosa ci interessa. Siamo
poco altro che merci in pubblica esposizione. I messaggi divengono slogan
(Twitter), in grado di incarnare in sé quello spirito pubblicitario del quale
mostrano di essersi appropriati. Se è vero che la validità di qualcosa dipende
dall’uso che se ne fa, non è possibile sfuggire a tali logiche, una volta
accettate. L’oggetto finisce così per ingabbiare il soggetto all’interno del
suo sistema. Chi sta scrivendo non pretende di esserne esente: è un “malato”
che cerca di comprendere la propria malattia.
Mirko Dolfi dolfimirko@gmail.com
(..). Lei non è “malato”, malata è la forma che ha assunto la
comunicazione di massa, dove chi riceve un messaggio finisce per leggere le
identiche cose che egli stesso potrebbe tranquillamente scrivere, e chi scrive
narra le stesse cose che potrebbe leggere inviate da chiunque. Il risultato è
una sorta di “comunicazione tautologica” che, paradossalmente, finisce per
abolire la necessità e, al limite, l’utilità della comunicazione. Tuttavia non
vi si rinuncia perché, come lei giustamente osserva, lo scopo di questo tipo di
comunicazione è “il desiderio di costruzione di un nuovo io e la ricerca di
approvazione”. Due cose che denunciano da un lato la non accettazione di sé, e
dall’altro quella forma d’insicurezza che affida all’approvazione degli altri
il riconoscimento di chi si vorrebbe essere e non si è. (..). Così ci si mette
in mostra come i prodotti si mettono in vetrina. E senza accorgersene
diventiamo una “mostra” che chiunque può
visitare. E poi approvare o disapprovare, non argomentando – non si può con 140
caratteri – ma scrivendo semplicemente “mi piace” o “non mi piace”.(..). Se poi
vogliamo considerare i danni fisici, che potrebbero preoccupare anche chi non è
interessato al pensiero, mi diceva un primario di oculistica che i giovani
d’oggi non sanno più vedere a distanza, e la preside di un liceo artistico mi
riferiva che i suoi alunni non riescono più a percepire la prospettiva. E’ un
mondo accorciato, un mondo ridotto a quella breve distanza che separa il mio
occhio dal telefonino, che mi fa vedere non il mondo reale ma il mondo in
immagine, non di rado manipolato dagli operatori di mercato che riescono a
intercettare anche i nostri gusti, per vendere gli oggetti che li soddisfano.
Ma si può prescindere da questi mezzi di comunicazione oggi diffusi su vasta
scala? No. Perché, siccome il mondo della comunicazione passa attraverso questa
rete, uscirne equivale a un’esclusione sociale. E nessuno vuole provare
l’angoscia e la solitudine di questa esclusione.
umbertogalimberti@repubblica.it
– Donna di Repubblica – 16 gennaio 2016
Nessun commento:
Posta un commento