“Scusate. Leggo su Twitter che un uomo
armato è stato ucciso davanti al commissariato di polizia di Goutte d’Or,
vicino Narbès. Lo sapevate?”. Leggo la notizia in francese, cercando la pronuncia
migliore per farmi capire dai francesi cui la sto dando. Che oltre a essere
francesi sono musulmani e stanno girando, proprio in quel momento, un videoclip
contro l’islamofobia. Sembra una specie di “colmo dei colmi” ma è esattamente
quello che mi succede giovedì 7 gennaio 2016, a Parigi, nella sede del Ccif
(Collettivo contro l’islamofobia in Francia), in un appartamento di Saint-
Ouen, banlieuve a nord di Parigi. Quando do la notizia, Rokhaya Diallo, giovane
nera musulmana intellettuale attivista femminista scrittrice anchorwoman e
tante altre cose ancora, sta raccontando alla telecamera le differenze da lei
percepite, in quanto francese e parigina, tra gli attentati del 7 gennaio, un
anno fa, e quelli del 13 novembre 2015. Mentre attendiamo notizie più precise
l’allarme monta online e la polizia raccomanda di non affacciarsi alle
finestre. Nella sede del Ccif le facce sono quelle di chi realizza ancora una
volta quanto il proprio lavoro sarà sempre più complicato. Per quanto ci si
ostini nel dichiarare al mondo che nulla cambierà mai i nostri stili di vita,
basta camminare da Saint-Ouen a Barbès per fotografare il disorientamento misto
a rassegnazione di chi non fa più una piega davanti alle stazioni della
metropolitana chiuse, ai mitra spianati ad altezza marziale, alle sirene
spiegate, alle strade bloccate, alla quotidianità piegata, allo stato di guerra
che non è un modo di dire. Per arrivare a Barbès attraverso il mondo, Africa e
Medio Oriente soprattutto. Ristoranti, macellerie, parrucchieri, internet
point, negozi di vestiti e telefonia, mercati all’aperto, tutto rimanderebbe
altrove, se l’altrove non fosse ovvio trovarlo qui, a Parigi, per storia e
tradizione. Barbès è Parigi, ma Parigi ora è Barbès transennata, giornalisti di
tutto il mondo, clochard che devono cedere i propri spazi all’attualità che non
li vede. I venditori di Marlboro diventano spacciatori di video del morto
ispezionato da un robot (duemila euro il prezzo di partenza dell’asta) a
beneficio della clientela di inviati e reporter. I genitori dei bambini rimasti
chiusi nella scuola di zona vengono perquisiti e ammessi all’area recintata.
Quando tornano, il circo mediatico ne assale i figli, che spesso rispondono,
rilasciando le prime intervista, come hanno visto fare alla tv. Il loro stile
di vita sta cambiando in fretta.
Diego Bianchi – Il sogno di Zoro – Il venerdì di Repubblica –
15 gennaio 2016 -
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