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domenica 1 novembre 2020

Lo Sapevate Che: ALDO FABRIZI, personalità simbolo della romanità nel cinema, è stato uno dei migliori attori italiani del Novecento Romano “de Roma”

Chi vince la battaglia con la coscienza, ha vinto la guerra dell'esistenza…

dal film C'eravamo tanto amati (1974) Aldo Fabrizi  Romolo Catenacci

 

Massimo esponente della romanità cinematografica, insieme ad Alberto Sordi e Anna Magnani, Aldo Fabrizi è stato regista, sceneggiatore, produttore e poeta dialettale. Ma soprattutto un attore che ha impresso un segno indelebile nella storia del cinema italiano, dando il suo contributo di brillante e versatile caratterista sia nell'ambito del Neorealismo che in quello della commedia all'italiana. Straordinariamente capace di equilibrare l'elemento comico con quello drammatico, ha manifestato in tutti i ruoli interpretati una naturale carica di bonaria umanità, che ha contraddistinto la sua intera carriera. Memorabile con quel fisico corpulento, la voce roca e affaticata, lo sguardo tra l'ironico e il malinconico, in grado come pochi di infondere vita a personaggi sornioni e disincantati, tratti dalla
Roma popolare o  piccolo borghese

 

L’esordio nel teatro di rivista e le commedie al cinema

Aldo Fabrizi nasce a Roma l'1 novembre 1905 da una famiglia umile. La madre gestisce un banco di frutta e verdura a Campo de' Fiori e il padre, un vetturino, muore quando il piccolo Aldo ha solo undici anni. Costretto ad abbandonare gli studi per contribuire al sostentamento della numerosa famiglia, che comprende anche cinque sorelle, il ragazzino si adatta a fare i lavori più disparati, dal fattorino al meccanico, dal decoratore al guardiano notturno e al postino. Nonostante le difficoltà economiche, la vocazione artistica di Fabrizi non tarda a esprimersi: scrive monologhi in dialetto sui popolani della Roma che frequenta e nel 1928 riesce a pubblicare un volumetto di poesie in romanesco. Nello stesso periodo comincia a calcare le scene teatrali, prima con la Filodrammatica Tata Giovanni, poi come dicitore delle sue stesse poesie. Dal 1931 partecipa a spettacoli di varietà, in cui sfrutta il materiale elaborato per le sue poesie. La sua attività di macchiettista, nei piccoli teatri della capitale e in giro per l'Italia, lo rende ben presto popolare, tanto da spingerlo a fondare una propria compagnia. Spontaneo e spassoso con le sue grottesche caricature in romanesco, Fabrizi è già una star del teatro di rivista quando debutta al cinema nel 1942 nella commedia Avanti c'è posto di Mario Bonnard, dove prende in prestito il personaggio di un suo sketch per incarnare un bigliettaio dal cuore d'oro, ma sfortunato in amore. Collabora anche alla sceneggiatura, così come farà in diversi dei film interpretati. Nella sua attività cinematografica riproporrà spesso questi suoi personaggi spiritosi, scettici, ma anche pervasi da una vena di malinconia, come il pescivendolo di Campo de' fiori (1943) di Mario Bonnard, in cui non riesce a conquistare il cuore di un'elegante signora e deve accontentarsi di una fruttivendola verace, interpretata dall'altra romana doc, Anna Magnani, con cui farà spesso coppia fissa sullo schermo. Proprio come ne L'ultima carrozzella (1943) di Mario Mattoli, in cui l'attore veste i panni del vetturino.

Roma città aperta e il Neorealismo

La vena di Fabrizi, però, non è soltanto comica. L'attore romano sa anche essere toccante, commovente. Lo dimostra perfettamente in Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini, film manifesto del Neorealismo. Qui Fabrizi interpreta il ruolo più significativo e intenso della sua carriera, quello di don Pietro Pellegrini, fucilato dai nazisti per aver preso parte alla Resistenza. Questo personaggio drammatico, venato di arguzia popolare, è ispirato alle figure dei sacerdoti romani don Giuseppe Morosini e don Pietro Pappagallo, entrambi fucilati nel 1944, durante l'occupazione nazista della capitale. Questa difficile prova è brillantemente superata dall'attore, che costruisce una figura eroica e umanissima, che lo ha reso celebre in tutto il mondo e ha costituito il culmine della sua carriera. Negli anni seguenti Fabrizi torna ai ruoli comici a lui congeniali, ma con risvolti sempre più amari, spesso nell'ambito del Neorealismo: come la figura del bidello che vede coronato il sogno di avere un figlio insegnante, ma viene da lui respinto, in Mio figlio professore (1946) di Renato Castellani, o quella del mite e coraggioso contadino che si sacrifica per salvare il proprio paese da una rappresaglia nazista in Vivere in pace (1947) di Luigi Zampa. Nel 1947 è il protagonista di Tombolo, paradiso nero di Giorgio Ferroni, singolare contaminazione tra i temi del Neorealismo e le atmosfere della cronaca nera e del melodramma. Il delitto di Giovanni Episcopo (1947) di Alberto Lattuada - in cui incarna un modesto impiegato d'archivio che finisce nelle grinfie di un avventuriero - è una delle sue prove drammatiche più riuscite, per la quale viene premiato alla Mostra di Venezia. Si aggiudica il Nastro d'argento come attore protagonista di Prima comunione (1950) di Alessandro Blasetti, in cui interpreta un burbero nuovo ricco che deve ritirare l'abito della prima comunione della figlia. Dà ancora prova di un istrionismo velato da una sottile amarezza in Vita da cani (1950) di Steno e Mario Monicelli. In Francesco giullare di Dio (1950) di Roberto Rossellini lo vediamo in un ruolo per lui insolito, quello di Nicolaio, un grottesco signorotto che vuole uccidere un frate e massacrare l'intera popolazione del suo borgo, un personaggio stravagante e quasi fiabesco.

La regia

Nel 1949 Fabrizi esordisce nella regia, riservandosi il ruolo di protagonista (come in tutti i film da lui diretti), con Emigrantes, girato in Argentina, film sulla nostalgia per la patria lontana, che mescola buffo e patetico, commedia e melodramma. Commedia modesta e sentimentalista, ma simpatica, è Benvenuto, reverendo! (1949), su un ex detenuto perseguitato dalla sfortuna. Ottiene un grande successo la serie sulle disavventure di un padre di famiglia piccolo-borghese: La famiglia Passaguai (1951), La famiglia Passaguai fa fortuna (1952) e Papà diventa mamma (1952), in cui Fabrizi fa riferimento alla sua esperienza nel teatro dialettale e nel varietà. Ritorna poi al registro melodrammatico con Una di quelle (1953), con Peppino De Filippo e TotòHanno rubato un tram (1954) è una commedia che ripropone uno dei suoi più riusciti personaggi teatrali, il conducente. Dirige anche "Marsina stretta", un episodio del film collettivo Questa è la vita (1954), tratto da alcune novelle di Luigi Pirandello. L'accorato e malinconico Il maestro (1957) è la sua ultima regia, da molti considerata la sua opera migliore, la cui vena crepuscolare e popolaresca si colora di una dimensione mistica, nella storia di un maestro di scuola che, perso il figlio, si chiude in sé stesso, finché l'arrivo di un nuovo scolaro non lo farà uscire dal suo guscio.


La commedia all’italiana

Nel 1951 l'attore romano recita nella commedia neorealista Guardie e ladri di Mario Monicelli e Steno, in cui per la prima volta la sua ironia disincantata viene messa a confronto con l'incontenibile comicità di Totò. Fabrizi incarna un bonario brigadiere, costretto, per non perdere il posto, all'incessante inseguimento di un ladruncolo napoletano (Totò) che non gli risparmia alcuna provocazione, ma con cui scopre di avere diversi problemi in comune. Qui anche in veste di co-sceneggiatore, viene premiato al Festival di Cannes. Con questo film dà il via a una serie di apprezzate interpretazioni che lo rendono uno dei protagonisti più importanti della commedia all'italiana. Considerato nell'ambiente del cinema una personalità difficile, che non risparmia critiche a colleghi e registi, l'attore romano nutre per Totò un'incondizionata stima e un profondo affetto. Lo ritrova ne I tartassati (1959) di StenoTotò, Fabrizi e i giovani d'oggi (1960) di Mario MattoliTotò contro i quattro (1963) di Steno. Lo vediamo spesso anche accanto a Peppino De FilippoSignori, in carrozza! (1951) di Luigi Zampa, in cui è un capotreno dalla doppia vita, Accadde al penitenziario (1955) di Giorgio Bianchi e Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo (1956) di Mauro Bolognini, con Alberto Sordi. Fabrizi è un attore straordinariamente prolifico e ottiene quasi sempre un buon successo, privilegiando i ruoli brillanti e comici, ma senza disdegnare le parti drammatiche. Ma, da metà degli anni Cinquanta, ripiega per lo più su personaggi collaudati: grassi e gioviali brontoloni in abiti da piccolo-borghese o in divisa di sottufficiale, che difendono i valori di un tempo ed esaltano il passato. Diversi sono, invece, i ruoli interpretati nei due film diretti dal regista austriaco Georg Wilhelm Pabst nella sua parentesi italiana: La voce del silenzio (1953) e il bizzarro Cose da pazzi (1953), in cui veste i panni di un matto che crede di essere un primario ospedaliero. Negli anni Sessanta Fabrizi prosegue un'intensa attività cinematografica e compare spesso in televisione, per lo più come ospite d'eccezione, dilettando il pubblico con i suoi madrigali in romanesco. Trova anche il tempo per il teatro, in cui trionfa, nella stagione 1962-1963, con il ruolo del boia papalino Mastro Titta nella commedia musicale "Rugantino", che culmina in una memorabile trasferta negli Stati Uniti, a Broadway, dove lo spettacolo registra il tutto esaurito. Negli anni Settanta si dedica alla poesia di argomento gastronomico, sua grande passione, ma continua anche con il cinema, lavorando in due film importanti: La Tosca (1973) di Luigi Magni, in cui è il governatore di Roma, e soprattutto C'eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola, in cui incarna il suocero di Vittorio Gassman, Romolo Catenacci, ex capomastro rude, disonesto e senza scrupoli, nostalgico fascista divenuto ricco palazzinaro. L'attore offre una caratterizzazione grottesca e ricca di sfumature psicologiche e si aggiudica il suo secondo Nastro d'argento. Ritiratosi dalle scene negli anni Ottanta, Fabrizi muore a Roma il 2 aprile 1990, due anni dopo avere ricevuto il David di Donatello alla carriera.

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