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giovedì 9 febbraio 2012

Meglio assolvere un colpevole che condannare un innocente

Ancora una volta una sentenza d'assoluzione è destinata a far discutere. Un bambino è stato (probabilmente) ucciso. Non si sa se dalla mamma, o dal convivente della mamma, o dalla mamma e dal suo convivente insieme. Nessuno (probabilmente) sarà mai condannato per avere cagionato quella morte.

Il dato di cronaca è drammatico. Ambiente degradato, intossicazione da stupefacenti, la mamma che esce di casa per procurarsi la droga, ritorna istupidita, durante la notte il compagno la sveglia indicandole il bambino ormai freddo. Cercano di nascondere le responsabilità denunciando un incidente, poi si accusano a vicenda.

La Procura della Repubblica incrimina d'omicidio il convivente, ed accusa la madre (soltanto) d'abbandono di minore. In primo grado l'uomo, ritenuto colpevole, viene condannato a ventiseì anni di reclusione per il grave reato che gli era stato contestato (la Corte chiede tuttavia che la Procura torni ad indagare per omicidio anche la madre, non ritenendo escluso un suo contributo alla causazione della morte del bambino). Ieri il ribaltone: l'uomo è assolto per non aver commesso il fatto, ed è immediatamente scarcerato. Per la donna, al momento, nessuna novità.

Ancora una volta, con riferimento ad un fatto di sangue, la giustizia italiana non è dunque riuscita a far chiarezza, ad individuare il responsabile, ad incastrare il colpevole. E in una vicenda nella quale è pressoché sicuro che un bambino, per dolo, per colpa o per incuria è stato ucciso da qualcuno individuabile in una cerchia ristretta di persone, nessuno, probabilmente, sarà mai chiamato a rispondere di quella morte cagionata (o non impedita).

Inadeguatezza del nostro sistema giudiziario (incapacità di fare indagini, trasandatezza nella raccolta delle prove, incertezza nella fase del giudizio), ovvero insuperabile complessità del caso e, conseguentemente, ineludibile incertezza nelle prove?

Può darsi che vi sia stato qualche errore. Può darsi, comunque, che data la peculiarità del contesto (nessun testimone, nessun elemento in grado di caricare univocamente su taluno dei protagonisti della tragica vicenda la responsabilità della morte del bimbo, nessuna confessione ma, anzi, l'accusa reciproca dei due indiziati), fornire una riposta in termini di colpevolezza certa "al di là di ogni ragionevole dubbio" (come prescrive la nostra legge) fosse difficile, se non, addirittura, impossibile.

Così stando le cose, la risposta "ultima" offerta dal nostro sistema di giustizia nel caso di specie potrebbe essere giudicata comunque "ineccepibile", poiché nessuno, secondo le regole del nostro codice di procedura penale, può essere condannato senza prova certa della sua colpevolezza.

Non sarebbe d'altronde la prima volta che i nostri giudici hanno affrontato casi nei quali c'era la certezza che uno degli imputati fosse il colpevole, ma non si era in grado di dimostrare chi, fra di essi, avesse commesso il reato. In questi casi i giudici sono stati, di regola, costretti ad assolvere tutti gli imputati, anche se era sicuro che, così facendo, si assolveva certamente anche un colpevole (si ricordi il famoso «caso Bebawi», nel quale due amanti, uno dei quali aveva sicuramente assassinato il marito della donna, si sono accusati reciprocamente del delitto, cercando in questo modo di sfuggire entrambi alla condanna penale).

Ma assolvere un colpevole nei cui confronti non esiste prova certa di reità costituisce cardine dello Stato di diritto, come costituisce cardine del processo penale in uno Stato di diritto la circostanza che è preferibile rischiare di assolvere un colpevole che rischiare di condannare un innocente.

Carlo Federico Grosso - Stampa 09-02-12

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