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mercoledì 30 maggio 2012

Lo Sapevate Che: Per Sfamare Il Pianeta...


Per Sfamare Il Pianeta Serve Una Rivoluzione Mediterranea

Contro i guasti dell’agricoltura estensiva e sprecona, un libro invoca il ritorno al cibo vegetale, di qualità, e alle piccole aziende, dal sud del mondo arrivano idee da copiare, ma il modello ci è molto familiare.

La sfida alimentare del futuro, nutrire fino a dieci miliardi di persone in un mondo alle prese con il cambiamento climatico, la scarsità di acqua dolce, di materie prime e di energia e l’erosione della biodiversità, non verrà vinta da ogm e monoculture, ma dall’integrazione di tecniche biologiche avanzate e antica sapienza contadina. Questa, in estrema sintesi, la ricetta che propone Eating Planet (Edizioni ambiente,pp.352,euro26), un saggio su cibo e agricoltura nato dalla collaborazione fra Barilla Center for Food & Nutrition e Worldwatch Institute, con interventi, fra gli altri, di Tony Allan, Raj Patel, Vandana Shiva e Carlo Petrini. Più che una riedizione della Rivoluzione verde degli anni Sessanta, fondata su un’agricoltura industriale dai forti consumi di energia, acqua e fertilizzanti, occorrerà puntare su un modello simile a quello tradizionale mediterraneo per avere cibo prevalentemente vegetale, di alta qualità e prodotto localmente da piccole o medie aziende.
“Per nutrire tutti e bene non serve aumentare la produzione agricola: i campi forniscono già oggi calorie sufficienti a sfamare 12 miliardi di persone” dice Beneditkt Haerlin, direttore della Fondazione per l’agricoltura del futuro e animatore della campagna Save Our Seeds, volta a evitare che i semi ogm si mescolino con quelli biologici.
“ Il problema vero è che gran parte di questo cibo finisce come mangime per animali o biocarburanti, viene sprecato per consumismo o problemi di conservazione ed è distribuito in modo ingiusto, lasciando un miliardo di persone affamate e rendendone obese un altro miliardo e mezzo”. Soluzioni innovative a questi problemi cominciano ad arrivare, ma non dai laboratori delle multinazionali, bensì, spesso, da ricercatori e agricoltori dei Paesi poveri. Come la “vaccinazione per raccolti” ideata dal nigeriano International Institute of Tropical Agricolture, che inocula un fungo innocuo nei cereali insilati, in modo che non possano essere attaccati da funghi pericolosi. O i Farm Market, dove i contadini vendono direttamente i loro prodotti. Così, per esempio, le indiane del sindacato femminile Sewa coltivano in modo biologico riso e ortaggi, li confezionano e li vendono in città, tenendo i prezzi bassi, pur moltiplicando il loro reddito.
Contro gli allevamenti estensivi, un progetto in Bangladesh ha introdotto invece nelle risaie pesci e anatre, che fanno strage di insetti ed erbacce e forniscono preziose proteine, aumentando le rese agricole del 20 per cento, e il reddito dei contadini dell’8° per cento. In Indonesia, Kenya e Malawi, i cereali e ortaggi vengono coltivati fra alberi “fertilizzanti”, come l’acacia o la tephrosia, che trattengono l’acqua, arricchiscono il terreno di azoto e prevengono l’erosione del suolo.
Quella che è in atto sembra davvero una nuova rivoluzione, non più verde-petrolio ma “sempreverde” e più lontana da quella degli anni Sessanta non potrebbe essere.
Alex Saragosa – Venerdì di Repubblica 16-05-12











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