Bisognerebbe istituire una giornata mondiale senza parole.
Stare zitti, tutti, per 24 ore.
Non per meditare, ma per vivere
Qualche volta, di mattina, vedo una signora pettinata come Rita Levi Montalcini che passeggia dentro la fontana davanti al Castello Sforzesco di Milano. Si toglie le scarpe e le calze sul bordo, arrotola i pantaloni fino al ginocchio ed entra nell’acqua. Cammina guardando in alto verso il cielo, oppure si perde dentro i rami degli alberi. Sembra che non esista più niente per lei. Un giorno mi sono fermato a parlarle. Quando mi ha visto ha sorriso. Le ho chiesto se l’acqua era fredda, ma lei si è portata l’indice alle labbra per farmi segno di star zitto.
Conosco una bambina che da piccola, quando si chiedeva com’erano nate le parole, immaginava una specie di parallelepipedo di cristallo alto alto e molto stretto. In cima c’era un tavolo su cui era posato un grande libro pesante. Sul libro c’erano le figure di tutte le cose del mondo. Due signori in giacca e cravatta ne sfogliavano le pagine e indicavano i disegni, discutendo animatamente tra loro. “E questa cosa qui come la chiamiamo?” “Non so, “armadio” ti piace?” “Armadio….Fantastico! E’ il nome perfetto”. “Allora siamo d’accordo: questo qui è l’armadio”. La bambina immaginava che la scena si ripetesse per ogni cosa – il pomodoro, il girasole, l’aspirapolvere e il fiume, per il gatto, la cimice, l’ombelico e l’aquilone – pagina dopo pagina, disegno dopo disegno, fino a dare un nome all’intero universo. Una volta le ho chiesto come mai nelle altre lingue le parole fossero diverse. Ha risposto: “Perché in ogni Paese ci sono due signori che danno i nomi alle cose”.
Niente è più meraviglioso dello spettacolo di un bambino che impara a parlare. E’ come se, associando suoni e contorsioni della bocca a quello che vede, lanciasse sulle cose parole come piccole reti per impossessarsi del mondo. Attraverso la lingua la vista si fa sguardo. Il mondo di ogni uomo viene alla luce, incomincia a esistere con le parole, perché la parola separa l’indifferenziato e crea le cose che nomina. Ogni bambino ripete la Genesi – “ e Dio disse: “Luce”. E luce fu” – un miliardo di volte. Una per ogni parola che impara e che dice. Ma la parola sbuccia le cose. Il linguaggio è anche una rete, una gabbia, una mappa che si distende sul mondo fino a coprirlo. Mostra e nasconde. Distingue le cose l’una dall’altra, le rende visibili, ma offusca la vista. Illude che se si può nominare si può dominare.
La signora pettinata come Rita Montalcini non ha voluto
parlare perché, forse, voleva continuare a guardare.
Nessun suono poteva riassumere l’acqua fredda sulle gambe, le nuvole in cielo, le foglie sugli alberi. Nessuna parola poteva prolungare il suo sguardo o spiegare il momento. Il mondo è sempre più grande della bocca degli uomini.
Bisognerebbe istituire una giornata mondiale senza parole. E stare zitti, tutti, per 24 ore. Smettere di leggere e scrivere, usare telefonini e computer. Non per meditare, tutt’altro. Per vivere Per esistere accanto agli altri senza proteggersi, chiedere, rispondere. Al modo degli animali e degli alberi. Guardare il mondo sotto la crosta del linguaggio insegnerebbe a ogni uomo, donna e bambino che prima di tutto si esiste in mezzo ad altre cose, e che tra le cose che esistono c’è anche ciò che si prova. Il silenzio ci insegnerebbe che cose come lo stupore, la paura e l’amore sono concrete e reali quanto uno struzzo, una banana o un’aringa. Tacere ci illuminerebbe per un giorno la vita, senza spiegarla. Scrisse Junichiro Kawasaki, il poeta: “La luna illumina una rosa. E non si vedono parole”.
Giacomo Papi – Donna di Repubblica – 12-05-12
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