Quando si parla di diritto al lavoro, quando si dice che il lavoro
È un diritto, confesso che l’espressione, a tutta prima,
mi lascia interdetto. Proviamo a chiarirci le idee.
Tanto per cominciare: che cosa si intende, quando si parla di diritto? Il termine ha vari significati.
Indica, dice il vocabolario, “un complesso di norme”: per esempio, il diritto romano. Ma quando si parla di diritto al lavoro è probabile che si abbia in mente un altro significato, codificato anch’esso dal vocabolario: in questo caso, diritto indica “la facoltà derivante da norme: ho il diritto di dirti quel che penso di te; ho il diritto di scrivere in libertà”. E quindi: quando si dice che nella Repubblica italiana il lavoro è un diritto, si intende che il cittadino ha il diritto di lavorare.
E fin qui, niente di sensazionale. Il cittadino ha la facoltà di lavorare: bella scoperta. Ma lavorare dove? In un’istituzione di qualche tipo, necessariamente: alle poste, per esempio, o alla Fiat. Sono però imprescindibili alcune premesse: la prima è che da qualche parte ci sia un posto disponibile. La seconda, non meno importante, è che il cittadino abbia i requisiti richiesti per occupare quel posto.
Insomma: il cittadino ha il diritto al lavoro, purché un lavoro ci sia, è purchè il cittadino sappia eseguirlo. Così stando le cose, la solenne dichiarazione secondo cui il lavoro è un diritto ci porta poco lontano. In un solo caso acquista rilevanza: quando un datore di lavoro voglia escludere un candidato all’iscrizione a un sindacato piuttosto che a un altro.
Si tratta però di casi particolari, che non richiedono, per essere risolti, un articolo della Costituzione.
Se questo è vero, sarebbe utile spostare l’attenzione dal terreno giuridico a quello pratico, nell’auspicio che tutte le parti in causa, governo, pubblici poteri, imprenditori, sindacati, concentrino gli sforzi e sappiano collaborare, affinchè il lavoro ci sia, e ci sia per tutti.
Piero Ottone – Venerdì di Repubblica 3-8-12
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