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mercoledì 8 agosto 2018

Lo Sapevate Che: Domanda barese, quesito universale...


“A Ci Appartén?” In barese significa “a chi appartiene?”, ed è una domanda che l’economista marxista pone spesso, talvolta per scherzo talvolta no, quando si parla di qualcuno o quando si incontra uno sconosciuto, soprattutto se siamo in Puglia. Il quesito tuttavia non si riferisce alla proprietà privata, che per mio marito e alcuni altri è un furto, ma a un concetto più ampio e profondo che riguarda le origini e le identità. Per anni l’ho preso in giro per questa abitudine provinciale, per questa tendenza a incasellare il prossimo, per questa malsana voglia di riconoscersi e di riscoprirsi, alla fine, tutti cugini, tutti membri di una stessa squinternata famiglia. Poi, come spesso accade, i figli adolescenti, con il loro talento implacabile nel fare a pezzi le nostre poche certezze, ci mostrano il loro personale punto d vista e illuminano di luce nuova e feroce il nostro fragile credo, Quest’estate, come le nove precedenti, trascorriamo due mesi in una piccola cittadina tra i boschi del Massachusetts; e, per il secondo anno consecutivo, il primogenito quindicenne frequenta il campo estivo Great Books, dove, per quattro settimane 24 ore su 24, un centinaio di teenager si dedica alla lettura di testi classici e non, a dibattiti e autocoscienza.  “Questa è la sua gente. Lui qui è a casa sua!”, ci disse l’anno scorso la direttrice, quando lo andammo a riprendere. “E pensare che non ci voleva venire”, pensammo no, senza dare troppo peso alle sue parole ma sorpresi che attività tanto intellettuali potessero sedurre nostro figlio, che coltiva con passione solo la sua tartaruga addominale. Lui ha trascorso l’intero anno in trepidante attesa di un ritorno “tra la sua gente”. “Vo non capite ma io appartengo a quel posto”, ha ripetuto da settembre a giugno. E vedendolo radioso di una felicità perfetta, incontenibile e insolita, ho ripensato a quella domanda, un tormentone familiare che arriva da lontano ma ci riguarda da vicino. A chi apparteniamo? Quel ragazzo dagli occhi inspiegabilmente blu che mi chiama mamma e che adesso sta discettando di vendetta nella letteratura e leggendo Garcia Marquez e Neruda e Singer, appartiene a noi che siamo le sue radici, ma anche a un luogo a noi remoto e alieno, vietato agli adulti, in cui si compiono impensabili magie come la fascinazione per la lettura e un senso inevitabile e prepotente di inclusione. E appartiene anche a una ragazzina afroamericana del Tennessee, a cui è stato fedele a distanza per un anno intero, mostrando un altro ingrediente ancora della sua pasta acerba. E probabilmente, a chiederglielo, appartiene anche ad altri mondi che ignoro, al pari della precisa collocazione geografica del Tennessee. E se lo chiedessi a mio marito? ”Tu, a ci appartine?”. Alla sua città di cui si ostina orgogliosamente a usare il dialetto, alla sua famiglia grande e luminosa, a me perché ci siamo scelti tanti anni fa e continuiamo a farlo oggi, ai figli che sono il nostro futuro. A Londra dove lavora e abita, alla sua moglie inglese, creatura immaginaria (?) partorita dalle mie paure ma vivida, plausibile come una doppia vita, e ad altro ancora su cui talvolta mi interrogo. A chi appartiene mia madre? A un mistero fatto di un passato in cui non ho abitato. A chi appartiene mio padre? È troppo tardi per chiederglielo. A chi appartengo io che vengo da una famiglia disarticolata, che ho radici labili e confuse, priva di tradizioni, incapace di chiamarmi? A chi appartengo io, che da bambina volevo disperatamente appartenere solo a un’anonima e inafferrabile normalità? L’appartenenza si può scegliere? E l’identità? Non sempre, non tutta, ma provarci può renderci più consapevoli e forse più liberi.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica – 4 agosto 2018 –

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