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sabato 7 aprile 2018

Lo Sapevate Che: Sì, anche da casa si può lavorare sodo...


Qualche Settimana Fa, in coda alle casse del supermercato, ho incontrato la maestra di mio figlio. Ho represso l’impulso di scattare sull’attenti, retaggio di un’atavica soggezione all’autorità scolastica, e l’ho salutata con ossequiosa deferenza perché il mantra “la maestra ha sempre ragione” ha radici inestirpabili. Lei, ben più disinvolta di me, mi ha sorriso e mi ha raccontato uno di quegli episodi su cui i figli stendono veli omertosi, ma che gettano ombre sinistre su reali o presunte nefandezze familiari e sulla visione che l’ingrata prole ha di noi derelitti genitori. “La mia mamma si sveglia tutte le mattine alle quattro”, avrebbe detto in classe l’ottenne terzogenito, consapevole che tale affermazione, peraltro veritiera, genera sempre una certa empatica commiserazione nell’interlocutore. “Però lei in realtà non è che lavori veramente”, avrebbe aggiunto subito dopo, forse per smorzare o annullare l’impatto doloroso di una quotidiana sveglia antelucana. Ho riso insieme alla maestra, ho pagato, insacchettato la spesa e, da allora, non ho più smesso di pesare alle parole di mio figlio, domandandomi se devo considerarle una vittoria o una sconfitta. Quattro anni fa ho abbandonato un lavoro dipendente e un contratto a tempo indeterminato, anche perché stavo sempre nel posto sbagliato: quando trascorrevo troppe ore in ufficio mi sentivo in colpa verso i miei cari e, viceversa, se mi dedicavo eccessivamente alla famiglia mi autoaccusavo di negligenza professionale. Ero dilaniata e infelice perché, evidentemente, non sono capace di essere contemporaneamente madre di tre figli e giornalista a tempo pieno in una redazione. Ho scelto il precariato, la partita Iva, il lato oscuro del mondo del lavoro, scoprendo che ci sto comodissima, malgrado l’incertezza sia diventata la mia cifra stilistica. Mi sono lasciata alle spalle, senza rimpianti, l’open space, i colleghi, le corse in bicicletta all’ora di punta, gli affanni, gli incastri, il tarlo dell’assenza. Mi sveglio quando gli altri dormono, esco quando è ancora notte, però a un certo punto della mattina torno a casa e ci resto. In caso di sconforto, successo, domande esistenziali e peregrine, dubbi, ripassi, saluti, rassicurazioni, l’adolescente malmostoso, il ragazzetto delle medie con lo sguardo pazzo e il piccolo che chiamiamo Sneddu mi trovano lì, dietro una porta che non è mai chiusa a chiave. Leggo, scrivo, studio, lavoro, mi dedico a un collage di occupazioni varie, in una stanza a portata di voce. Quindi forse la percezione di mio figlio sulla mia presunta nullafacenza è positiva, perché scevra da quel fardello di smarrimento e fatica cui spesso un lavoro tradizionale a tempo pieno si accompagna. Tuttavia, io lavoro. In certi casi anche molto. E per questo ricevo un compenso fondamentale al sostentamento familiare tanto quanto quello del pater famlias che, con una professione ben più tradizionale della mia e per giunta all’estero, è percepito come lavoratore a pieno titolo. Mi viene il dubbio che le mie attività bislacche non veicolino quel messaggio di indipendenza, realizzazione e emancipazione femminile che vorrei arrivasse forte e chiaro a quei tre giovani esemplari maschi. E se un giorno si aspetteranno dalle loro compagne una stanzialità domestica, talvolta incompatibile con professioni appaganti e solide, io avrò fallito. La verità è che ogni modello si presta a interpretazioni e ogni esempio si specchia nel suo esempio. Facciamo un sacco di errori con le migliori intenzioni, e le impronte che lasceremo avranno forme diverse dai nostri piedi. Ma ci somiglieranno comunque e qualche volta, sotto la luce giusta, forse brilleranno.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di La Repubblica -31 marzo 2018 -

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