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domenica 21 gennaio 2018

Lo Sapevate Che: La sublime arte di perdere tempo...

Sono Sdraiata Supina sopra un materassino azzurro, i palmi delle mani verso l’altro, le gambe leggermente divaricate; i piedi nudi, abbandonati, guardano uno verso destra e l’altro verso sinistra. Ho gli occhi chiusi e respiro con il naso. Stacco la lingua dal palato e mi accorgo che le due arcate dei denti non si tocchino, Appoggiata sul petto ho una maglietta a righe di cotone, a mo’ di coperta. Sto piuttosto bene. Una voce lontana e suadente mi invita a rilassarmi. E d’un tratto resto da sola. Scompaiono il pavimento, le pareti, il soffitto, i rumori, le tizie intorno a me e il loro inquietante respiro di mantice. Galleggio in un non luogo. Mollo ogni ormeggio e divento zattera alla deriva. Mi piace, qui. Vorrei abitarci ogni tanto per un po', magari il venerdì, all’ora di pranzo. Sono le due di pomeriggio. Due dei miei figli stanno tornando da scuola e a casa non c’è niente da mangiare. Avrei dovuto preparare qualcosa. Me ne sono dimenticata. Avrei dovuto comprare il latte e il pane. E invece no. Il grande aveva la verifica di verbi latini. Ieri sera non si ricordava l’indicativo imperfetto passivo di legere (“lege…”.”…bas!”. “No! Legebar, Legebaris, Lege…”. “Madre, dammi tregua. Il latino mi asciuga”). Avrò spento il fuoco sotto il caffè prima di uscire? Non sono più una libera zattera- Sono una cozza aggrappata allo scoglio. Un grumo di pensieri e di tensioni. Che ci faccio sdraiata per terra nella posizione del cadavere alle 14 di un giorno feriale? La magia è andata in frantumi, la zattera è colata a picco e io riemergo dalla mia personale pozzanghera settimanale di beatitudine annaspando. Mi rimetto seduta, con uno scatto da marionetta. “Sto perdendo troppo tempo”, mi dico, con lo sguardo allucinato e la tachicardia. Ho fallito anche questa volta. Spero solo che l’insegnante non se ne sia accorta. Andrà meglio la prossima. Vado a rivestirmi e, dilaniata tra senso di sollievo e di fallimento, salgo sulla bicicletta e pedalo forsennata verso le mille lacune della mia quotidianità. Non è questo il giusto approccio allo yoga, ma devo procedere per gradi. Proprio durante una lezione ho avuto l’agghiacciante epifania: non sono più capace di perdere tempo. Al bar apro la bustina di zucchero prima ancora che si materializzi il caffè; in coda alla posta, mentre gli altri chiacchierano e socializzano, io evado le e-mail arretrate; ascolto gli audiolibri a velocità raddoppiata per fare prima; quando interrogo mio figlio piccolo sulle tabelline, contemporaneamente cucino o mi faccio la ceretta. Le rare volte in cui faccio conversazione al telefono fisso, ne approfitto per riordinare il tavolo o cucire un bottone, o controllare le previsioni del tempo. Non sono capace di fermarmi e godermi l’attimo. È una nevrosi, una malattia, una condanna, una tara probabilmente legata ai miei natali milanesi. È l’involuzione della specie. Mi detesto quando sono colta dall’horror vacui e mi affanno a riempirlo, perché conosco l’inestimabile valore del tempo perso e ammiro chi sa goderselo. Per questo pratico yoga, da qualche mese, ogni venerdì all’ora di pranzo, anche se non mi somiglia, anche se sono rigida e resistente. Perché devo imparare a lasciarmi andare, ad accomodarmi su quella zattera senza ribaltarmi per l’ansia. Perché chiudere gli occhi e andare alla deriva fa un gran bene. Perché così forse un giorno imparerò a camminare piano, a chiacchierare con la signora in coda allo sportello in banca e ad ascoltare senza spazientirmi la storia del suo cane che mangia solo arrosto, a ripassare la tabellina del sette liberando i pensieri e fermando le mani. E non dovrò neppure aspettare il venerdì per sdraiarmi nella posizione del cadavere e sentirmi libera e felice.

Claudia de Lillo – Opinioni - Donna di La Repubblica – 20 gennaio 2018 -

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