Domando Scusa A Chi avesse l’incoscienza di continuare a leggere, perché questa storia è la
solita che ripeto due volte all’anno da vent’anni, il racconto dell’Apocalisse,
ma non posso farne a meno. Due volte all’anno, appunto, scatta sugli Stati
Uniti d’America la psicosi detta “del cielo che cade”, manifestata dagli
uragani di fine estate e dalle tempeste di neve del tardo inverno. Quando, come
a metà settembre, l’Oceano Atlantico rovescia sulla costa orientale americana
la furia di acque e venti partiti come innocenti nuvolette bianche dall’Africa,
la psicosi della fine del mondo travolge non soltanto le città e le popolazioni
direttamente sul cammino della tempesta, ma i milioni che vivono a centinaia di
chilometri. Il grande nastro trasparente della psicosi di Apocalisse sono le
reti televisive 24/7, quelle che devono riempire tutte le ore di tutti i giorni
e si lanciano sulla meteorologia come scimmie affamate sulle banane. Niente fa
più televisione di un ciclone che piomba su una città e gonfia i teleschermi
annoiati con immagini di onde mostruose, alberi sradicati, pali divelti, tetti
scoperchiati, case allagate, barchette improvvisate di famigliole alla deriva in
Venezie improvvise. È spettacolo, show, nobilitato dalla pretesa di rendere un
servizio al pubblico. Ma il servizio pubblico e l’ansia che produce per
ottenere audience, si estendono anche a coloro che non saranno sfiorati dall’Apocalisse.
I governanti, terrorizzati dall’essere sorpresi con le braghine calate come fu
George W. Bush davanti al disastro dell’uragano Katrina a New Oreanz, o come
Trump sprezzante verso la devastazione di Puerto Rico nel 2017, lanciano grida
laceranti, per mettersi il sederino al coperto. I cittadini qualsiasi si recitano
nei supermercati e negli empori di ferramenta per fare incetta di beni primari,
di batterie, torce, tavole di compensato e trapani, per coprire le finestre,
dalle quali rami e detriti possono entrare come proiettili. Non importa se vivono,
come me, a Washington, a 550 chilometri dal “Ground Zero”, dalla località
centrata dall’occhio del ciclone in Nord Carolina. Gli scaffali dei
supermercati dove mia moglie e io facciamo spese sembrano, con l’avvicinarsi
dell’ora x, quelli dei nudi Gastronom alimentari sovietici anni ’70. Spariscono
il latte, lo scatolame, i crackers, le bottiglie d’acqua, tutti i generi a
lunga conservazione, al diavolo colesterolo e dieta. Madri di famiglia spingono
carrelli come i carri coperti dei pionieri, traboccanti di derrate. Vanno a
ruba i beef jerky, le strisce di
manzo affumicato che durano per sempre e che i pionieri impararono a conoscere
dagli indiani nativi, che conservavano così la carne dei bisonti. I più accorti
acquistano generatori, spesso senza capire come vadano adoperati. In ogni
disastro naturale c’è qualche famiglia annientata dal premuroso papà che aveva
usato il generatore dentro casa, asfissiando tutti gli abitanti. Il bisogno di
sopravvivere risveglia, in ogni americano, quella nicchia di ricordi nel
cervello che riporta tutti al proprio stato di migrante, essendo ogni
americano, sotto la sfoglia delle generazioni, qualcuno venuto dal grande
altrove. Tonnellate di cibi saranno gettate via o ignorate, ma per qualche
giorno, con batterie a portata di mano come la bandoliera di un pistolero, con
abbastanza latte per farci il bagno come Poppea, vivranno il brivido del
pioniere nella Grande Prateria, fissando sul televisore l’occhio rosso e feroce
dell’uragano che si avvicina. Poi tutti di nuovo a giocare con i tablet, a
guardare le serie tv, a rimpiangere i soldi buttati al supermercato. Che nel
frattempo si rifornisce, pronto a incassare gli utili della prossima Apocalisse
di neve.
Vittorio Zucconi – Opinioni – Donna di
La Repubblica – 29 settembre 2018 -
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