“Ci si perde sempre per un motivo”, disse un giorno
una mia amica, perforandomi con il suo sguardo acuto e tagliente. Eravamo due
adolescenti ingarbugliate e quelle parole, pronunciate con ostentata
noncuranza, erano una disamina lucida e implacabile del nostro rapporto che si
stava sfilacciando. Raggelata dall’ineluttabilità di quella considerazione, che
di fatto sancita la fine di un legame ritenuto imperituro, provai a ribattere
che non era vero, che le persone si perdono anche per caso o per sbadataggine.
Lei fece no con la testa. E se ne andò. Da allora mi è capitato spesso di
allontanarmi da qualcuno: parenti, affetti, amici. Ogni volta, risuonava
l’implacabile verdetto di una ragazzina dalla mente tormentata e affilatissima.
E mi domando quale sia il motivo di quella improvvisa distanza dove c’era
prossimità. È strano. Subiamo un quotidiano bombardamento di parole da cui ci
lasciamo attraversare indenni, impermeabili. Ogni tanto, seppur di rado,
qualcuno ci trafigge, restando inchiodata per sempre nella nostra coscienza,
pronta a riaffiorare al momento opportuno. Certe parole sono semi che
germogliamo e mettono radici forti, anche se, quando si insinuano dentro di no,
lo ignoriamo. Ho provato a chiudere gli occhi e metterle in fila, per trovare
un nesso e per restituire loro un’origine. Mio padre di tanto in tanto
sospirava: “Ah! Se avessi vent’anni di meno, Ciccetti!”. Poi mi lanciava uno
sguardo ironico come chi, in fondo, sta bene dov’è e della macchina del tempo
non ha alcun bisogno. Periodicamente mi domando, oggi che quell’auspicio potrei
pronunciarlo io a buon diritto, se, sottraendo quel tempo dalle mie spalle,
sarei veramente più felice. Mio nonno era un dottore e un giorno dei miei sei
anni dichiarò che, prima o poi, ci saremmo tutti presi i pidocchi. Quando, una
sera di aprile, mio figlio di mezzo esclamò “Oh Che strani animalini mi cadono
dai capelli” e, qualche minuto dopo, scoprimmo che gli immondi parassiti
avevano colonizzato tutte e cinque le nostre teste, ebbi la conferma
dell’infallibilità della categoria medica. “Quando non si riescono a risolvere
le contraddizioni interne, si portano all’esterno e talvolta si dichiara una
guerra”, diceva la mia professoressa di Storia e filosofia e ho imparato che
questo vale per i capi di stato e anche per tutti noi. “La mente non è un vaso
da riempire, ma un fuoco da accendere”. Lo disse Plutarco, ma è stata
l’insegnante di Greco di mio figlio a citarlo, in una riunione di classe: ho
pensato che il primogenito aveva avuto fortuna nel trovare un’incendiaria. Stavamo cercando di afferrarci i piedi chini,
rigidi e doloranti, su noi stessi e sui nostri materassini. “Da morti stiamo
tutti dentro una valigia”, commentò la maestra di yoga. Probabilmente voleva
dirci che saremmo ben più flessibili di così se ci lasciassimo andare, ma l’immagine
di noi, scalzi e contratti, piegati e stirati in un trolley, continua a
regalarmi un brivido ogni volta che mi guardo le estremità. Una sera, dopo una
cena di lavoro, trovai sul divano, steso al buio, mio figlio maggiore. Aveva
tredici anni e stava guardando una serie tv americana con le risate in
sottofondo. Mi son seduta accanto a lui e piano, con la cautela che richiede
quell’età irsuta, ho allungato un braccio e gli ho accarezzato i capelli. Siamo
stati così, in silenzio, per qualche minuto, a goderci la reciproca compagnia. “Anche
le sex machine come me hanno bisogno
ogni tanto di una mamma che le coccoli” ha mormorato lui, senza distogliere lo
sguardo dallo schermo. Ho ritratto la mano d’istinto, in un moto di sbigottito
sconcerto. Ma la sex machine si è
conficcata nel mio cuore.
Claudia de Lillo – Opinioni – Donna di
Repubblica – 29 settembre 2018 -
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