La distopia
è l’anti-utopia, è l’utopia in negativo. È distopica una società o una comunità immaginaria
indesiderabile, al punto da essere terrificane. “1984” di George Orwell è un
capolavoro di distopia. È un romanzo del genere tra i più letti. Ne sono stati
venduti trenta milioni di esemplari. Soltanto in Cina ne sono state pubblicate
tredici traduzioni. La diffusione di “1984” (la prima edizione è del 1949)
aumenta, puntualmente, col crescere dell’angoscia provocata da trasformazioni
sociali e politiche che si annunciano traumatizzanti. Che implicano
alienazioni. Lo rileva con argomenti convincenti Said Mahrane in un saggio
apparso sul settimanale parigino “Le Point” del 18 agosto. Ma non è soltanto
Mahrane a sostenere che questo accade, ad esempio, quando il “noi” soppianta
l”’io”. Quando affiora il sentimento che qualcosa di implacabile, senza
rivelare obbligatoriamente le proprie intenzioni, sta per condizionare le
nostre libertà. I grandi libri funzionano spesso come termometri delle nostre
apprensioni. Alla nascita,
il “1984” di George
Orwell era ispirato all’Unione Sovietica (come l’opera di Simon Leys aveva come
bersaglio la Cina di Mao). Mezzo secolo dopo, con gli individui diventati
miniere di conoscenze personali, incluse non poche fake news, attraverso
Facebook e Instagram; con le libertà beffate dalle “democrature” (come sono
chiamati i regimi russo e turco, ma la definizione non è azzardata anche per le
pratiche politiche in uso in alcuni Paesi dell’Europa centrale); con la
sinistra che sembra avere perduto per strada il senso della giustizia; con i
puritani che predicano una virtù senza anima, anche la lettura di Orwell è
cambiata: i bersagli impliciti dei suoi libri non sono più gli stessi. Con l’elezione di Donald Trump la letteratura dispotica ha ripreso nuova vita. Ci si
illudeva che fosse un genere superato con la fine della società sovietica e
invece “1984” è tra i libri più venduti su Amazon. E molti attribuiscono il
forte sussulto editoriale anche all’arrivo di Trump alla Casa Bianca. Lo stesso
fenomeno si era già manifestato quando nel 2013 Edward Snowden, ex impiegato,
della National Security Agency, aveva rivelato i programmi di sorveglianza di
massa, negli Usa e in Gran Bretagna. Fu come se fosse apparso il fantasma del
“grande fratello”. L’angoscia collettiva è un ingrediente psicologico che
cambia il significato di una lettera. Orwell è
stato il primo a usare nel
suo contesto – nel 1945 – il termine “guerra fredda”. E ha descritto la
“neolingua” creata per adeguare il pensiero della gente alla volontà del potere.
La sorveglianza tecnologica, non ancora tanto estesa quando lo scrittore la
descriveva dandole dimensioni allora esagerate, sembrava destinata nelle sue
pagine a divertire e al tempo stesso a spiare, come se non fosse da prendere
troppo sul serio. Orwell non era un perfetto liberal progressista impegnato a
combattere le sciagure politiche e social in arrivo. Come tale aveva non pochi
difetti. Gli capitava di usare toni anti-femministi e termini omofobi (come
“checca”). Nato Arthur Blair, in una famiglia britannica, a Motihari, in India,
nel 1903, alternava una eccezionale e cupa lungimiranza a una visione ristretta
del mondo, ben lontana dalle sue profonde anticipazioni politiche e sociali.
Viveva n un clima di forte tensione: il nazismo, prendeva piede, nasceva lo
stalinismo, la guerra civile di Spagna precedeva di poco la Seconda guerra
mondiale. La nuova lettura cui si prestavano i racconti dispotici di Orwell non
può indurci a paragonare i suoi ai nostri tempi. Sarebbe sciocco. Ma lo sarebbe
altrettanto trascurare l’emergere delle democrazie illiberali (le
“democrature”) che si danno apparenze democratiche, ma che sono piuttosto
indaffarate a reprimere gli oppositori. Dopo la
grande decolonizzazione
degli anni Sessanta e con l’implosione dell’Unione Sovietica, il mondo poteva
sembrare come una futura vasta prateria senza steccati: sempre meno frontiere e
meno nazionalismi, macchie democratiche sempre più estese. Ed ecco invece che
la prateria s sta trasformando in un groviglio di nazionalismi e di autoritarismi
non certo smile a quello degli anni Trenta, ma con alcune sconcertanti
somiglianze. Trump ed Erdogan – e altri uomini di potere dei nostri giorni, e
di casa nostra – figurano come caricature del “grande fratello”. Si può
riaprire “1984”. Non è un buon segno.
Bernardo
Valli – Dentro E Fuori – L’Espresso – 2 settembre 2018 –
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