C’è Un Dibattito in corso nel Paese delle balle di Stato, quello di Ustica e del caso Moro
per capirci, che ha del surreale. Fior di intellettuali, giornalisti, politici,
magistrati e salumieri, con l’aiuto della suocera, discutono sul fatto che
l’Italia sarebbe entrata nell’era della post-verità. E ce serve un intervento
in grande stile. Filosofeggiano, e più filosofeggiano più è chiaro che anche
stavolta sotto sotto si cela una battaglia politica. Contro Beppe Grillo che, a
modo suo, attacca. Perché il problema sotteso alle bufale sul web, nello
stomaco dei politologi, è semplice: cui prodest? Se giova a Grillo, va fermato.
Perché poi Renzi (o chi per lui) perde le elezioni. E così, convinti di
affermare la libertà di espressione, finiamo di nuovo dritti nella trappola
dell’ex comico. Permettete Un Dubbio, da giornalisti con tutte le nostre
colpe. Non è furbizia di guappo, sembra essersi aperto un varco? E, accucciata
come un lupo feroce pronto a sbranarsi la democrazia con un clic, ci sarebbe
una parola, post-verità, che spingi-spingi potrebbe tornare buona per qualcuno?
Perché se è così, la battaglia è già persa. Per ammissione di sconfitta della
stessa informazione: si tratta, in sostanza, di dire che se sui social qualcuno
spara scemenze – mischiate a migliaia di cose vere, cui partecipano da anni
anche le testate storiche, i giornaloni, perfino esageratamente – quelle scemenze
sarebbero così forti da devastare l’intero sistema mediatico e la sua
credibilità. È come ammettere, gridando al fascismo e alla censura, di non
riuscire più a essere creduti, unica funzione vitale del giornalismo in
qualunque forma sia divulgato. Che fare, si dicono allora i giganti della
libertà di espressione? Indagare, vietare, censurare il web. E cosa risponde
Grillo? Giuria popolare per tutti gli altri. Un dibattito senza capo né coda,
nell’era in cui perfino Pablo Picasso può venire apostrofato come graffitaro e
tutti amici come prima. Posso Dire Una Cosa da italiano medio? Non si difende
così il diritto di cronaca. Soprattutto nel Paese dove la post-verità rischia
di suonare come un già visto. Anzi un passo avanti rispetto a quel che siamo da
decenni: l’Italia della post-bugia. Dello Stato che nasconde la verià. I libri
sono pieni di post-bugie all’italiana. Siamo il Paese che ha montato e smontato
commissioni d’inchiesta con il compito di nascondere la verità che sarebbero
emerse da sole, anziché di cercarle più in fretta. Siamo quelli del caveau di
Carminati e del caso Pasolini, dei mafiosi al governo e del rapimento Orlandi,
su cui ancora aspettiamo una pre-verità ormai postuma, custodita nei sacri
Palazzi. La verità dove sta? Sta dove qualcuno la cerca davvero. Dove il
giornalismo, con caparbietà, a volte rischiando la vita, tenta di fare luce su
fatti che altri intendono tenere nascosti. Sta nel lavoro quotidiano dei
cronisti. Non in quello dei tribunali o delle authority anti questo o quello. Così
potente quando fa il suo mestiere di fronte al potere da avere contribuito in
maniera decisiva, penso ad esempio al 1992, a far cadere il sistema sulle
proprie gambe d’argilla. Fatico a credere che, se qualcuno avesse ridicolizzato
i giornali con post-verità su Craxi o De Lorenzo, avremmo gridato al fascismo.
Nessuno se ne sarebbe accorto, perché l’odore del vero è più acre di qualsiasi
profumo pre o post tu voglia dargli. Eppure Proprio Così scopriamo di non avere
più anticorpi per reagire. Al punto di proporre, nello Stato abituato a mentire
ufficialmente, di “vietare” questi bugiardelli dilettanti e i loro fake? Non è
la strada: solo il giornalismo può vincere questa partita. Ma deve sconfiggere
prima di tutto la post-bugia di Stato. Non sembrare mai megafono. Né parte del
Palazzo. A quel punto la post-verità si frantuma sul pavimento marmoreo del
conoscere. Senza divieti o censure. Ma facendo luce sui fatti. Il solo compito
del giornalista.
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